PANORAMICA ITALIANA SUL DIALOGO TRA LE MISURE DI PROTEZIONE E L'IMPRESA INDIVIDUALE


SOMMARIO:
1) L’amministrazione di sostegno e le scelte gestionali del giudice tutelare. Acquisizione, continuazione, affitto, vendita e liquidazione dell’impresa: a. Il tessuto normativo; b. L’attività gestoria.
2) Le categorie di soggetti c.d. “deboli”: a. I minori emancipati;
b. I minori soggetti alla responsabilità genitoriale; c. I minori sotto tutela; d. Gli interdetti e gli inabilitati.
3) Le tipologie di imprese: a. L’impresa agricola; b. L’impresa di famiglia; c. Il piccolo imprenditore; d. L’impresa artigiana.
4) Conclusioni: a. Inizio, continuazione, affitto, alienazione e liquidazione dell’impresa in relazione agli indici di bilancio; b. Il controllo sulla
gestione del beneficiario, dell’amministratore di sostegno o dell’institore.


1) L’amministrazione di sostegno e le scelte gestionali del giudice tutelare. Acquisizione, 
continuazione, affitto, vendita e liquidazione dell’impresa:

a. Il tessuto normativo
La Legge n. 6 del 9 gennaio 2004 che ha introdotto la figura  dell'amministratore di sostegno non disciplina espressamente la gestione di un’impresa individuale commerciale da parte di un beneficiario.
La scelta giudiziale deve essere posta in relazione in primo luogo con la capacità  di agire tendenzialmente riconosciuta all’amministrato, salve le limitazioni del giudice tutelare da disporre con la minore intensità possibile (come previsto dall’art. 1 della legge citata); in secondo luogo con la necessaria duttilità delle previsioni normative che, pertanto, non individuano scenari generali e preconfezionati.

E tutto questo perché le esigenze di protezione tipiche dell’amministrazione di sostegno non si ricollegano necessariamente alla categoria della incapacità ma alle concrete condizioni di fragilità e debolezza del beneficiario: nulla impedisce al soggetto affetto da una disabilità esclusivamente fisica ma totalmente invalidante di continuare a gestire la propria impresa. 
La chiave di volta dell’istituto è, difatti, rappresentata dall’art. 409 c.c. che attesta la conservazione della capacità di agire per quanto non diversamente stabilito dall’autorità giudiziaria.
È un modo di procedere diametralmente opposto a quello indicato dall’art. 427 comma 1, c.c. dove il giudice può prevedere che “taluni” atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto o, se eccedenti, dall’inabilitato. I tre distinti sistemi di protezione (interdizione, inabilitazione e amministrazione) lasciano chiaramente intendere come diversamente si dispongano regole ed eccezioni negli istituti 
in esame. 
A ben vedere, si tratta di uno scenario a geometria variabile declinato: sulle concrete condizioni di fragilità del beneficiario; sul probabile impatto economico delle attività da compiere sul patrimonio e sulle esigenze di vita e di cura (patrimoniale e personale) del destinatario. 
Ed infatti, sebbene non vi sia nell’art. 411 c.c. un richiamo agli artt. 371 c.c. comma 1, n. 3 (continuazione, alienazione o liquidazione delle aziende commerciali che si trovano nel patrimonio del minore in tutela) e comma 2 (continuazione dell’esercizio nel caso di evidente utilità), e 397 c.c. (esercizio da parte del minore emancipato), il comma 4 dell’articolo in commento contempla, però, l’ipotesi che il giudice tutelare -
nell’ambito del decreto ex art. 405 c.c. - individui gli atti che richiedano la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore, eventualmente estendendo all’amministrato determinati effetti, limitazioni e decadenze previsti per l’interdetto o per l’inabilitato. 
I riferimenti normativi diventano, ma solo potenzialmente per i motivi di cui si è detto, quelli degli artt. 424 c.c. (applicazione agli interdetti e agli inabilitati delle regole rispettivamente in materia di tutela dei minori e di curatela degli inabilitati) e 425 c.c. (esercizio dell’impresa commerciale da parte dell’inabilitato). 

b. L’attività gestoria
La disciplina dell’esercizio dell’attività imprenditoriale commerciale da parte di minori, minori emancipati, interdetti e inabilitati ha un regime totalmente diverso da quella degli atti negoziali tipicamente o categorialmente indicati per la gestione del loro patrimonio.
Ed invero, se gli artt. 374 e 375 c.c. (per la tutela dei minori) regolano le modalità di autorizzazione di singoli atti negoziali o processuali (acquisti, giudizi, alienazioni ed altro) e l’art. 394 c.c. (per il minore emancipato) distingue a tale fine tra atti di ordinaria o di straordinaria amministrazione, gli artt. 371 comma 1 n 3 e comma 2 c.c. e 397 comma 1 c.c., 424 c.c. e 425 c.c. prevedono l’autorizzazione all’esercizio dell’impresa tout court.
È evidente che le previsioni normative rispondono a quelle che sono le esigenze proprie dell’impresa commerciale che impone snellezza e flessibilità nell'adozione delle decisioni organizzative e commerciali quali l’acquisto dei beni strumentali, la conclusione di contratti di lavoro, le scelte in materia di processi produttivi (lay out), le politiche commerciali di conquista e di mantenimento del mercato.

Ne consegue che i singoli atti, se e in quanto strettamente collegati all'esercizio d'impresa, non richiedono specifiche autorizzazioni essendo sufficiente quella originaria alla prosecuzione dell'attività imprenditoriale in genere: la continuazione dell'attività, una volta autorizzata, sarebbe gravemente ostacolata o addirittura paralizzata, se per ogni singolo atto, occorresse rivolgersi all'autorità giudiziaria.
Sul punto è bene sottolineare che il patrimonio aziendale dell’imprenditore individuale giuridicamente non si distingue ai fini della autorizzazione da quello personale sicchè, per l’individuazione degli atti negoziali funzionalmente collegati all’attività imprenditoriale, non è lecito differenziare tra la gestione di beni propriamente “aziendali” e quella dei beni “personali” in quanto il discrimine è dato dalla strumentalità 
dell’atto da compiere. 
Si precisa, inoltre, che non solo l’acquisto di beni strumentali o la vendita dei beni in magazzino devono ritenersi preventivamente consentiti dall’autorizzazione alla gestione dell’impresa, ma anche la conclusione di contratti di conto corrente per le entrate e le uscite aziendali, l’apertura di credito, la stipula di un mutuo a scopo di finanziamento, la vendita di un bene “personale” con la conseguente utilizzazione del corrispettivo per l’acquisto di beni strumentali rientrano nella concessa autorizzazione. 
Si è già detto che la gestione dell’impresa a opera di un beneficiario dipende dalle statuizioni assunte dal giudice tutelare nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno e che, in quella sede (o successivamente), il giudice può disporre un richiamo a “determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato”.

L’utilizzo del termine “determinati” lascia chiaramente intendere che l’autorità giudiziaria non sarà costretta a richiamare, di volta in volta, l’intero impianto normativo di ciascuna delle distinte ipotesi di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.
Tutto ciò significa che nei confronti di un beneficiario più o meno incapace di provvedere ai propri interessi non sarà necessario rifarsi in toto e con sistematicità alle previsioni proprie della tutela o della inabilitazione e il giudice potrà estendere soltanto alcune previsioni e non altre sulla scorta delle effettive esigenze dell’amministrato. 
Fatto è che, se l’autorizzazione generale alla gestione dell’impresa è giustificata da quelle esigenze organizzative, produttive e commerciali di cui si è detto, il giudice tutelare, in luogo di autorizzare “genericamente” l’esercizio, non potrà in alternativa introdurre il limite della necessità di autorizzazione per singoli atti di gestione in quanto si tratta ipotesi non contemplata neanche per la forma più incisiva di protezione quale è quella dell’interdizione.

2) Le categorie di soggetti c.d. “deboli”:
a. I minori emancipati
Si osservi che, se il minore (almeno sedicenne) si emancipa con la sua ammissione al matrimonio previo accertamento anche della sua maturità psicofisica, è evidente che tale maturità non è di per sé sufficiente per l’esercizio dell’impresa.
Difatti, l’inizio (previsto solo per il minore emancipato) dell’attività imprenditoriale è consentito per chi dimostri una particolare maturità e attitudine a gestire  l’impresa previa autorizzazione del tribunale, su parere del Giudice Tutelare e sentito il curatore. 

Il provvedimento in parola attribuisce al minore emancipato la capacità di compiere da solo anche gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione: una volta autorizzato in tale senso, la sua condizione giuridica è assimilabile a quella di un maggiorenne discostandosene soltanto per l’incapacità di testare, donare e l’onere di accettare l’eredità con il beneficio di inventario.
Qualora il minore emancipato non sia considerato dal tribunale sufficientemente maturo o si intenda revocare l’autorizzazione, lo scenario della sua capacità giuridica in relazione all’impresa dovrebbe degradare a quello previsto dall’art. 394 c.c. con la distinzione tra atti di ordinaria amministrazione (di cui è capace) e quelli di straordinaria amministrazione (che necessitano del consenso del curatore e dell’autorizzazione del 
giudice tutelare. È d’obbligo precisare che per gli atti previsti dall’art. 375 c.c., se il curatore non è anche il genitore, l’autorizzazione è rilasciata dal tribunale previo parere del giudice tutelare). 
Fatto è che l’esigenza di snellezza e fluidità della gestione aziendale non rende praticabile il ricorso costante alla procedura di autorizzazione per i singoli atti che eccedano l’ordinaria amministrazione, sicchè appare opportuno il richiamo all’art. 425 c.c. dettato per l’inabilitato che prevede l’autorizzazione all’esercizio che nel caso sarà necessariamente condizionata alla nomina di un institore.
Dall’esame di queste norme si comprende agevolmente come il discrimine consista nelle maggiori o minori maturità ed adeguatezza, dove è bene sottolineare che se per maturità si intende l’attitudine soggettiva, l’adeguatezza si pone in relazione alla importanza, tipologia e gradiente di rischio dell’impresa e, quindi, al possibile o probabile impatto economico sul patrimonio del minore. 

b. I minori soggetti alla responsabilità genitoriale
I genitori del minore possono essere autorizzati dal tribunale previo parere del giudice tutelare alla continuazione (ma non all’inizio) dell’impresa.
È appena il caso di sottolineare che l’autorizzazione riguarda l’attività di rappresentanza e amministrazione dei genitori e non certo l’esercizio dell’impresa direttamente da parte del figlio ex art. 320 comma 5 c.c..
Dalla lettura dell’art. 320 comma 3 c.c. si ricava che per il compimento di atti categorialmente predeterminati (alienazioni, ipoteche etc.) o comunque eccedenti l’ordinaria amministrazione, l’autorizzazione al compimento dell’atto ha come necessari i requisiti della necessità o dell’evidente utilità.
Si ricordi che devono essere considerati di ordinaria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 
1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 
2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 
3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patrimonio predetto. 
Di contro, saranno considerati di straordinaria amministrazione gli altri atti che non presentano congiuntamente le sopra citate caratteristiche. 
Il giudice autorizzerà la continuazione dell’attività di impresa (che non è certo finalizzata alla conservazione statica del patrimonio ma ha una ricaduta economica sicuramente elevata in positivo o in negativo) solo dopo aver valutato attentamente l’analisi del rischio e, quindi, dopo aver tenuto conto della necessità o della evidente utilità della continuazione.

c. I minori sotto tutela
Sempre sulla continuazione dell’esercizio dell’impresa, l’art. 371 c.c. prevede l’autorizzazione qualora se ne ravvisi un’evidente utilità per il minore; utilità che, nella norma di cui all’art. 320 c.c., si rendeva necessaria solo in via interpretativa.
Tale espressa indicazione evidenzia come l’ordinamento sia sfavorevole alla continuazione dell’attività imprenditoriale (e, ancor di più, il suo inizio) sia per i rischi economici che detta attività proietta sul minore che per la funzione prevalentemente conservativa della gestione patrimoniale dell’istituto di tutela in esame. 

d. Gli interdetti e gli inabilitati 
L’art. 424 c.c. richiama le disposizioni previste per la tutela dei minori e per la curatela degli emancipati, ma è solo l’art. 425 c.c. che prevede espressamente l’autorizzazione per l’inabilitato alla continuazione della impresa commerciale, eventualmente previa la nomina di un istitore. 

3) Le tipologie di imprese:
a. L’impresa agricola
Le autorizzazioni all’esercizio dell’impresa di cui agli artt. 320 c.c., 371 c.c., 397 c.c. e 495 c.c. non riguardano l’imprenditore agricolo che, ai sensi dell’art. 2135 c.c., esercita l’attività di coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse che giungono sino alla commercializzazione dei prodotti -se ottenuti 
prevalentemente dal fondo- o, comunque, dopo la riforma di cui al D.Lgs. n. 228 del 2001,potenzialmente o strumentalmente con il terreno.

Questa scelta si proietta su l’amministrazione di sostegno: le ragioni della minore attenzione nei confronti della impresa agricola si fondano nel minor rischio imprenditoriale (si pensi, infatti, all’esonero dall’assoggettamento alla procedura fallimentare), nella residualità statistica degli atti di straordinaria amministrazione “urgenti” rispetto a quelli di ordinaria amministrazione e, soprattutto, nella considerazione che l’azienda agricola è utilizzata per il godimento del fondo con una tendenziale sicurezza del reddito che se ne trae.
Ovviamente, la mancata previsione di una autorizzazione generale non comporta che l’attività di gestione non possa essere comunque regolata nell’ambito della amministrazione di sostegno: sarà necessario ricorrere all’impianto normativo per gli atti tipici o categoriali propri della interdizione o della inabilitazione se e in quanto 
puntualmente richiamati dal giudice tutelare con il decreto di cui all’art. 405 c.c..

b. L’impresa di famiglia
Si distingua il soggetto titolare dell’impresa familiare che riveste la qualifica di imprenditore dai partecipi alla impresa.
Se per la prima figura è sufficiente ribadire quanto sopra esposto con riferimento all’esercizio dell’attività d’impresa, per i partecipi è bene sottolineare che l’art. 230 bis c.c. prevede che le scelte sull'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa siano adottate a maggioranza dai familiari che partecipano alla impresa stessa. Sarà, quindi,
necessario riferirsi alle regole dettate per le singole ipotesi di incapacità in relazione alle decisioni da assumere. 

L’affermazione è confermata proprio dall’articolo in commento dove si legge che “I familiari partecipanti alla impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi” con implicito richiamo alle figure del tutore e del curatore.

c. Il piccolo imprenditore
Il piccolo imprenditore è definito dall’art. 2083 c.c. come (oltre al coltivatore diretto) il soggetto che esercita stabilmente un’attività dove l’organizzazione è strumentale al proprio lavoro e a quello dei suoi familiari che costituiscono il gradiente prevalente di questo fattore di produzione.
Sebbene alcuni autori sottolineino che la piccola impresa non lo sia in termine tecnico e, per questo motivo, la emancipino dalla richiesta di autorizzazioni, sul punto si deve affermare che impresa e piccola impresa si differenzino soltanto sotto il profilo quantitativo perché le distinzioni normative sono tipizzate ed episodiche. Si veda per tutti l’art. 2214 comma 3, c.c. che esime il piccolo imprenditore dalla tenuta delle scritture 
contabili (il libro giornale, il libro degli inventari, le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa, per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite).
Proprio la non immediata individuabilità della categoria delle piccole imprese ha fatto sì che con la riforma della Legge Fallimentare (D. Lgs. n. 5 del 2006 poi novellato dal D. Lgs. n. 169 del 2007) si sia abbandonato il riferimento categoriale al piccolo imprenditore di cui all’art. 1 comma 2 L. F. per individuare soglie di fallibilità 
quantitative (attivo patrimoniale, ricavi lordi, esposizione debitoria), fornendo adeguato riscontro a quella dottrina che propende per una distinzione quantitativa e non qualitativa. 

d. L’impresa artigiana
La L. n. 433 del 1985, all’art. 5 comma 4 prevede che: “In caso di invalidità, di morte o d'intervenuta sentenza che dichiari l'interdizione o l'inabilitazione dell'imprenditore artigiano, la relativa impresa può conservare, su richiesta, l'iscrizione all'albo di cui al primo comma, anche in mancanza di uno dei requisiti previsti 
all'articolo 2, per un periodo massimo di cinque anni o fino al compimento della maggiore età dei figli minorenni, sempre che l'esercizio dell'impresa venga assunto dal coniuge, dai figli maggiorenni o minori emancipati o dal tutore dei figli minorenni dell'imprenditore invalido, deceduto, interdetto o inabilitato.”. Con ogni evidenza,
l’assunzione dell’esercizio dell’impresa è comunque subordinata alle autorizzazioni di cui si è detto. 

4) Conclusioni:
a. Inizio, continuazione, affitto, alienazione e liquidazione dell’impresa in relazione agli indici di bilancio 
Le norme di riferimento sono sicuramente l’art. 371 c.c. che consente la continuazione dell’attività imprenditoriale, previa autorizzazione, al tutore del minore nel caso di evidente utilità e l’art. 397 c.c. che, per il minore emancipato, ne permette anche l’inizio in quanto tale soggetto, una volta autorizzato, acquista una capacità simile a quella del maggiorenne con i limiti di cui si è detto.
La scelta di consentire ai soggetti fragili (diversi dal minore emancipato e autorizzato all’esercizio) solo la continuazione dell’attività riposa sulla necessità di contemperare l’esigenza di conservazione del patrimonio dell’incapace con il rischio di impresa: tale rischio diviene maggiormente ponderabile a impresa già iniziata sulla scorta dei dati disponibili e dell’andamento economico complessivo.
Il riferimento necessario diventa, dunque, quello dell’analisi approfondita degli indici di bilancio (quando un bilancio vi sia) o dei dati economici dell’impresa (ad esempio l’ipotesi di esenzione per il piccolo imprenditore). Indici (di redditività, di liquidità, di solvibilità e di solidità patrimoniale) che consentono di valutare 
costantemente il pregresso andamento patrimoniale ed economico dell’impresa e ne costituiscono la stella polare per autorizzare la continuazione dell’esercizio quando i risultati si prospettino come maggiormente positivi rispetto a quelli successivi alla vendita, alla liquidazione e al conseguente investimento conservativo (titoli di stato e altro).
Quello che è opportuno sottolineare in questi ambiti è che,se l’affitto e alienazione comportano la dismissione dell’attività imprenditoriale, fatta salvo anche in caso di affitto l’ipotesi di una prosecuzione in concreto dell’impresa, per la liquidazione dell’impresa individuale, la cessazione dell'attività presuppone che non siano più compiute operazioni economiche o commerciali intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in 
essere nell'esercizio dell'impresa stessa. In caso contrario, l'attività di impresa deve ritenersi ancora in corso ancorché le operazioni si collochino nella fase di liquidazione e siano dirette alla disgregazione dell'azienda.

b. Il controllo sulla gestione del beneficiario, dell’amministratore di sostegno o dell’institore.
Si è già detto che la norma cardine dell’istituto, a tali effetti, è l’art. 411 comma 4 c.c. dove è rimesso al giudice l’eventuale richiamo a determinate disposizioni a favore dell’interdetto o dell’inabilitato: la decisione concreta deve, però, rispondere all’interesse del medesimo (interesse soggettivo) e a quello tutelato dalla normativa se 
determinatamente richiamata (interesse oggettivo).
Tutto ciò significa che la decisione di continuare debba essere declinata sulla scorta di una geometria variabile che veda come referenti l’utilità dell’esercizio e l’entità del rischio: un siffatto bilanciamento è normativamente previsto dall’ordinamento in materia fallimentare. 
L’art. 104 L. F. disciplina l’ipotesi che il tribunale autorizzi il curatore dell’impresa fallita a continuarne provvisoriamente l’attività “se dalla interruzione può derivare un danno grave, purché non arrechi pregiudizio ai creditori”.
A ben vedere, l’esigenza che la norma persegue (evitare il danno grave) si pone agli antipodi della evidente utilità di cui si è detto e, soprattutto, riguarda un orizzonte temporale breve (l’esercizio è provvisorio): proprio perché particolarmente rigorosa, rappresenta un riferimento elettivo se adeguatamente attenuata o, comunque, declinata a seconda dell’importanza economica e patrimoniale dell’impresa, del concreto rischio da affrontare e della valutazione delle concrete capacità imprenditoriali del soggetto da tutelare.
Quello che importa è il sistema di controllo dell’utilità finale dell’esercizio.
La fattispecie di riferimento prevede una informazione, un controllo e una vigilanza costanti in quanto il curatore riferisce al comitato dei creditori “almeno ogni tre mesi, […] sull'andamento della gestione e per […] l’opportunità di continuare l'esercizio” e “Ogni semestre, o comunque alla conclusione del periodo di esercizio 
provvisorio, il curatore deve presentare un rendiconto dell'attività mediante deposito in cancelleria. In ogni caso il curatore informa senza indugio il giudice delegato e il comitato dei creditori di circostanze sopravvenute che possono influire sulla prosecuzione dell'esercizio provvisorio”.
La norma in commento è stata novellata dall’art. 211 a seguito del D. Lgs. n. 14del 2019 (Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza) con effetti a far data dal 1 settembre 2021.
L’aspetto saliente è che non è più prevista la necessità di evitare il grave danno alla procedura ma è sufficiente che la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori.
Il motivo di questa vigilanza e monitoraggio continuo è evidente: i debiti accumulati durante l’esercizio provvisorio si pongono in prededuzione rispetto agli altri e quindi, se non contrastati da utili sufficienti, sono destinati non solo a ridurre l’attivo patrimoniale ma anche a frustare in tutto o in parte le ragioni creditorie chirografarie privilegiate.
Se si trasporta il tutto nello scenario dell’amministrazione di sostegno, il sistema è idoneo a contrastare ed eludere gli effetti di una gestione negativa sul patrimonio del beneficiario. 
I parametri di riferimento consistono nella individuazione delle capacità dell’impresa di produrre reddito e di sostenere il debito.
Qualora queste informazioni, controlli e vigilanza si articolino non solo sulla base delle singole circostanze sopravvenute ma riguardino gli indici di bilancio cui si è fatto cenno, il rischio diviene minimo e, al contempo, la permanenza della utilità può essere sistematicamente verificata.
Indubbiamente si tratta di un’ipotesi che potrebbe apparire eccessiva per un’impresa di modeste dimensioni ma si è già detto che il sistema di monitoraggio ben può essere diversamente articolato a seconda del giro di affari, del rischio, delle fragilità effettive del beneficiario e dei costi di questo controllo.
Tale attività non si pone in contrasto con le già citate esigenze di snellezza e di duttilità che giustificano l’autorizzazione tout court dell’esercizio dell’impresa: il controllo e la vigilanza non risultano di alcun ostacolo alla prontezza delle decisioni e alla immediatezza delle loro esecuzioni, ma si pongono come veri e propri referenti per la continuazione o per la cessazione dell’attività.

Brevissime considerazioni finali:
Queste pagine redatte in lingua italiana sono il frutto della preziosa collaborazione tra la sottoscritta Avv. Aurora Marcelli e il suo collega Prof. Avv. Uralov Sarbon  Sardorovich, Department of Criminal Procedure Law, Tashkent State University of Law, Uzbekistan.
Solo con uno sguardo rigido e distaccato è possibile esaminare attentamente ciò che accade intorno a noi, solo dall’altura internazionale è possibile costruire rimedi concretamente realizzabili.

Avv. Aurora Marcelli 
Dottoranda di ricerca UNIVPM 

Prof. Avv. Uralov Sarbon 
Sardorovich, Department of Criminal Procedure Law, Tashkent State University of Law, Uzbekistan.
 

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