LA LUNGA MARCIA DEL DIRITTO PENALE. LA VARIETA' DELLA FUNZIONE DELLA PENA TRA PASSATO E PRESENTE.


Rilievi generali in merito all’evoluzione storica della concezione della pena.
“In solitudine qualche volta mi è capitato improvvisamente d’immaginare, mentre mi godevo tranquillamente la mia libertà, che c’erano sulla faccia della Terra, nei paesi più civilizzati come nei più barbari, uomini condannati a un supplizio lento e terribile; ed ero spaventato dalla quantità di dolore che sembrava mi circondasse rimproverandomi le mie distrazioni e la mia impietosa spensieratezza.” (CONSTANT B., De la détention, in Principes de la politique)


Come avverte il filosofo tedesco Nietzsche “il concetto di pena non presenta più, in realtà, in uno stato molto tardo della civiltà, un unico significato, bensì un intera sintesi di significati; la precedente storia della pena in generale, la storia della sua utilizzazione ai fini più diversi, finisce per cristallizzarsi in una sorta di unità, che è difficile a risolversi, difficile ad analizzarsi e, occorre sottolinearlo, del tutto impossibile a definirsi” 
La visione dell’autore è arguta nell’intuire l’insita complessità del concetto in discorso, non riconducibile a un unico parametro teorico. Solamente uno studio di carattere storico può dare atto, grazie al confronto diacronico, degli svariati significati maturati nel corso del tempo, agevolando così la comprensione della sanzione penale come istituzione sociale.
Esaminata attraverso l’utilizzo di una lente giuridica, la pena può essere intesa come la risposta dell’ordinamento al concreto verificarsi di un’azione immorale, cioè come una sanzione predisposta per tutti i casi di inosservanza di una fattispecie penale.
“La norma giuridica è un imperativo di condotta imposto agli individui da un potere a essi superiore; ma l’imperativo non può esaurirsi soltanto in un’imposizione: altrimenti non avrebbe senso. Tale senso acquista solo se vuole essere obbedito, se, cioè, prevede l’ipotesi della disobbedienza e, a quest’ultima, riconnette determinate conseguenze.” 
Proprio in questo troviamo l’essenza della sanzione che rappresenta la conseguenza ancorata alla trasgressione di una determinata norma; così il disprezzo e la condanna dell’opinione pubblica, il rimorso per la violazione commessa, la dannazione eterna: qualsivoglia tipologia di ordine presuppone una sanzione, in mancanza della quale l’ordine stesso si scombina e si disgrega. L’imperativo opera anche come una intimidazione, dal momento che gli individui, potendo presagire il male discendente dalla pena, scelgono di evitare comportamenti non conformi alle regole precostituite.
Le locuzioni sanzione e pena sono strettamente correlate fra loro all’interno del mondo giuridico. La pena può essere ordinata in un rapporto di specie a genere con la sanzione, ossia a quel mezzo impiegato dall’ordinamento giuridico come risposta al manifestarsi di una condotta delittuosa. Per una sua natura, la pena è lo strumento predominante volto a tutelare la pacifica convivenza fra gli esseri umani e, al contempo, è l’istituto che tocca più da vicino le questioni legate alla libertà, alla sicurezza e alla dignità umana.  La sua essenza non è circoscritta al mero controllo della criminalità ma si estende a rappresentazione dell’ordine morale di una determinata società. Ne discende, invero, che la qualificazione della pena come giusta e legittima è determinata dal contesto politico - culturale di un particolare periodo storico, allo stesso modo di quella che viene considerata disumana.
Al termine del diciottesimo secolo si deliberarono nuove regole di repressione penale, i monarchi sottoponevano a sanzione non soltanto i peccatori ma anche gli oppositori politici, scatenando, come diretta conseguenza, il vacillare del consenso intorno all’inflizione delle sanzioni penali, innescando un vigoroso dibattito sulla questione del diritto penale e sulla legittimazione del potere punitivo dello Stato. Fu proprio in questo periodo che cominciarono a farsi strada le dottrine di Locke e Thomasius, le quali affermavano l’esigenza di limitare il novero delle condotte suscettibili di subire una sanzione penale, “con l’esclusione da essi dei comportamenti che andavano incontro a disapprovazione solo religiosa o solo sociale”. 
Seppur con sfumature diverse, le grandi voci dell’età dei Lumi discutevano riguardo ad un modello di società civile basato sul cosiddetto “contratto sociale”, secondo il quale la legittimazione originaria del potere dello Stato poteva trovare il suo fondamento solo nella rinuncia di ogni individuo ad una parte dei propri diritti naturali.  La teoria in questione postulava, nello specifico, un ipotetico stato di natura in cui gli individui sottoscrivevano un patto attraverso il quale conferire parte del proprio ius in omnia nelle mani di un potere superiore, essendo quest’ultimo l’unico in grado di garantire la pace e proteggere i beni di ognuno permettendo, allo stesso tempo, la conservazione delle libertà individuali.
 La legge, secondo il pensiero di Montesquieu, è garanzia di libertà poiché “la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono”. 
L’illuminismo francese fu musa ispiratrice di un’opera imprescindibile per la teoria moderna della pena.  Il testo di stampo laico, intitolato “Dei delitti e delle pene”, è frutto della brillante mente di Cesare Beccaria che, agganciandosi proprio all’idea del contratto sociale, esordisce in questi termini: “le leggi sono le condizioni, colle quale gli uomini indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere di una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte quelle porzioni di libertà, sacrificate al bene di ciascheduno, forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle”. 
Beccaria introduce la questione della pena e del suo fondamento, racchiuso nella necessità di dissuadere ogni consociato da azioni arbitrarie volte ad alterare la sicurezza del vivere quotidiano. 
La potestà punitiva dello Stato risulta unicamente dalla somma della minima quota di libertà che ogni cittadino decide di cedere per il bene collettivo e si legittima in questi termini: “ecco dunque sopra di chi è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste le pene, quanto più sacra e inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi”.
Il fine ultimo della pena si cela nel bisogno di difendere il “deposito” di tutte le libertà particolari riposte nelle mani dello Stato. Il reato non può che consistere in una lesione di un interesse che l’ordine sociale ha il dovere di difendere per la propria incolumità e per assicurare il pacifico esercizio dei diritti individuali.
La pena di morte non può, dunque, essere un diritto esercitabile dallo Stato perché quest’ultimo è il prodotto della volontà generale, che a sua volta è costituita dall’insieme delle libertà particolari. Tali volontà individuali, al momento della stipula del contratto sociale, non intendono sacrificare altro che una minima quota della propria libertà e da ciò, come diretta conseguenza, ne discende l’assoluto divieto di infliggere la pena di morte in modo arbitrario.
Nella voce del legislatore, unico deliberatore delle regole sui delitti, deve risuonare il principio della cosiddetta “dolcezza della pena”, secondo cui il vero scopo deterrente è soddisfatto non tanto dalla atrocità e dalla platealità della punizione, quanto dalla sua infallibilità. La certezza di un’esecuzione concreta del castigo ha il potere di infondere, nella psiche di ogni essere umano, un timore più incisivo e dirompente rispetto alla minaccia di una pena più terrificante, unita alla speranza della non punibilità.
La filantropia settecentesca, incoraggiata dall’utilitarismo di Beccaria e rischiarata dai lumi del rigor logico - giuridico, apre la via ad una «umanizzazione della pena» che, ovviando al vecchio impianto di pene corporali, permette al carcere di conquistare sempre maggior spazio; una rivoluzione che muta la visione stessa della pena, nella sua genesi e nel suo fine ultimo. “Le sole leggi posso decretar le pene sui delitti”, scriveva Beccaria, intendendo che la pena è ora frutto della legge, ed essendo essa commisurata al «danno fatto alla nazione» ha la funzione di riaffermare, nel caso venisse infranta dall’uomo, la legge stessa, figlia del “legislatore che rappresenta tutta la società unita per contratto sociale”.  In un contesto così completamente nuovo la detenzione carceraria conquistò una veste fondamentale: coloro i quali avessero disatteso il patto sociale sarebbero stati giudicati dalle leggi pubbliche, espressioni della volontà del popolo, e condannati a castighi diluiti nel tempo, entro le mura degli istituti penitenziari, lontani da quell’unità popolare tanto lodata dall’Illuminismo intero. 
 
2. Il fine ultimo della sanzione. Un viaggio attraverso le principali 
    elaborazioni filosofiche della pena 

Lapalissiano è il rilievo che l’identificazione dello scopo della pena e l’individuazione della sua ragion d’essere siano azioni complesse non di agevole compimento. Il turbolento cammino percorso da giuristi e filosofi si spande in un cospicuo arco temporale in cui si originano, si sviluppano, si diramano e si combattono molteplici indirizzi interpretativi, nel tentativo di ancorare un ragionevole fondamento ad un istituto così intrinsecamente complesso. La storia dell’evoluzione della società, investita dalle tortuose trasformazioni del diritto, si riflette sul modo di concepire il sistema penale, determinandone la modificazione; nulla sopravvive immutato o uguale a se stesso, pur non smettendo di essere sempre specchio fedele del tempo e del preciso contesto che vive. 
“La giustizia penale non è storicamente rappresentabile dentro uno schema di un costante progresso verso l’incivilimento. Essa ha conosciuto crisi e regressioni, insieme a fasi in cui è stata asservita a disegni tirannici e a progetti di dominio politico. E può conoscerne ancora, perché riappaiono tenacemente, anche nelle moderne società, la volontà di farne ottuso mezzo repressivo o la pretesa di trasformarla in occasione di privilegiata impunità.”  Chiave di lettura, questa, che rileva l’imprescindibilità di una preliminare trattazione critica circa le principali elaborazioni filosofiche della pena. In particolare, alle pene è stata attribuita una funzione di tipo retributivo, di prevenzione generale e di prevenzione speciale. Queste tre idee-guida tracciano, di volta in volta, il quantum della sanzione da infliggere e la sua “ratio”.
Nella letteratura penalistica, in riferimento al momento della funzione, le teorie in questione si suddividono in due grandi gruppi: le dottrine cosiddette “assolute”, che si connotano in negativo per la mancanza di finalità ulteriori rispetto alla mera inflizione della pena;  Punitur quia peccatum est: la pena è legittimata da un bisogno di giustizia assoluta.
Sono dette, invece, dottrine “relative” tutte le teorie utilitaristiche che ammettono una punizione “ne peccetur”: con lo sguardo rivolto al futuro, esse mirano alla correzione del comportamento di coloro che hanno posto in essere un’azione criminosa. 
Una distinzione fondata, dunque, sull’eventualità che si ravvisi o meno nella pena una funzione; un quid pluris rispetto al solo elemento punitivo.


2.1. La teoria “retributiva”. Il male che segue il male

“Se anche il consorzio civile si sciogliesse con il consenso di tutti i suoi membri (se ad esempio gli abitanti di un’isola decidessero di separarsi e di disperdersi per il mondo), dovrebbe prima essere giustiziato l’ultimo assassino che si trovi in prigione, affinchè a ciascuno tocchi ciò che i suoi atti inducono e la colpa del crimine non resti impressa al popolo che, non avendo reclamato la punizione, potrebbe essere considerato responsabile di questa pubblica lesione della giustizia”.
(KANT, “Metaphysik der sitten” 1797)


“Vendetta ti chiedo, / lo chiede il tuo cor. / Rammenda la piaga /
Del misero seno, / rimira di sangue / coperto il terreno, /
Se l’ira in te langue / d’un giusto furor.”
(DA PONTE – MOZART, Don Giovanni, atto I, scena 3?)


Conferire alla pena una “ratio” retributiva significa ancorare la ragion d’essere dell’istituto al bisogno di una giustizia “assoluta”, che esula dalla considerazione di un qualsiasi fine da raggiungere.   Compendiabile nell’assunto che il bene va contraccambiato con il bene e il male con il male, la sanzione penale è un valore positivo che trova in sé stessa la sua legittimazione: essa è la misura volta a compensare la colpevolezza del reo.
Alla base della concezione retributiva, nella sua sanguigna veste originaria, l’espiazione del delitto consisteva in una vendetta privata messa in atto dalla parte lesa; un’ordinaria pratica di giustizia volta a ristabilire gli equilibri violati delegata dunque ai soggetti interessati, senza la necessità di intervento di alcuna autorità superiore.
Questa concezione primordiale, nel corso del tempo, si è emancipata dalla sua essenza vendicativa trasformandosi nella cosiddetta “ legge del taglione” che introduce l’idea di una risposta punitiva di uguale portata all’entità dell’offesa procurata; una visione fondata su dogmi propri delle legislazioni più arcaiche, i quali vengono richiamati anche in un passo del Vecchio Testamento che così recita: “Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido.”  
La logica “del taglione” costituisce l’embrione della concezione retributiva intesa in senso moderno: il potere di infliggere un castigo commisurato all’entità della colpevolezza passa nelle mani dell’istituzione pubblica, la quale riveste un ruolo di terzietà rispetto alle parti in causa, detraendo così tale potere dalle facoltà del privato offeso. 
 Si rinviene, allora, nel principio di proporzionalità la misura di giustizia della sanzione penale.  La bilancia propria della giustizia retributiva, invero, valuta e proporziona la pena alla concreta gravità derivante dall’atto criminoso. 
La sanzione penale, intesa in prospettiva etico - retributiva, ingloba in sé il principio secondo cui l’essere umano non può essere oggetto di strumentalizzazione per fini contingenti; la sua esistenza trascende completamente dalle prospettive future della vita del reo, ma risponde unicamente a un’idea di giustizia assoluta. Ancorare la pena a un preciso fine da raggiungere significherebbe edificare la sua “ratio” su qualcosa che è inevitabilmente altro da sé.  Solo una concezione di giustizia fine a sé stessa è in grado di rispettare la dignità dell’essere umano, i cui comportamenti rappresentano manifestazioni concrete di scelte libere e svincolate da condizionamenti esterni.
La teoria de qua sottintende un modello di agente dotato di libero arbitrio, capace di autodeterminarsi liberamente e di valutare coscientemente le proprie azioni.  Il reato è inteso quale estrinsecazione di una scelta libera e consapevole del suo autore; egli decide con volizione e intenzione di porre in essere una determinata azione delittuosa, nonostante la concreta possibilità di adottare un comportamento differente. Questa teoria si pone in antitesi rispetto alle concezioni proprie della Scuola Positiva, la quale, trasportando i principi generali del positivismo filosofico e del darwinismo naturalistico nel diritto penale, mutò totalmente la prospettiva con la quale analizzare il fenomeno criminale: il reato costituisce un fenomeno naturale; esso è inteso come conseguenza di cause connesse al condizionamento esercitato dal meccanismo sociale in cui il reo è inserito e, soprattutto, da elementi antropologici e biologici del soggetto criminale.


2.2. La funzione di prevenzione speciale

“Tout à coup, un matin d’une triste journée de décembre, je trouve dans le crâne d’un brigand tout une longue série d’anomalies atavistiques […] A la vue de ces étranges anomalies, comme apparaît une large plaine sous l’horizon enflammé, le problème de la nature et de l’origine du criminel m’apparut résolu: les caractères des hommes primitifs et des animaux inférieurs devaient se reproduire a nos temps”

(Cesare Lombroso, Discours d’ouverture, 1908, p. XXXII).


Alla teoria retributiva fa da contraltare la Scuola Positiva, che si sviluppa al tramontare del diciannovesimo secolo ed ispira con le sue concezioni il modello di prevenzione speciale, cui si aggancia quello di rieducazione penale.
La Scuola Positiva si allontana dal giusnaturalismo moderno e illuministico per pervenire ad una concezione del delitto quale fenomeno bio-psicologico e sociale: esso non è una manifestazione libera e raziocinante del soggetto agente, ma è la conseguenza di comportamento umano che soggiace al condizionamento del contesto sociale e culturale nel quale l’individuo è inserito. Proprio a cagione della forte influenza esterna, l’uomo non è capace di determinare consapevolmente le proprie scelte, ma si trova a delinquere spinto da una “legge di causalità naturale che lo costringe”. 
Il libero arbitrio, per i fautori della teoria de qua, è una pura astrazione metafisica che dissocia il reo dalla sua realtà sociale o biologica; una pura illusione astratta che va espunta, riconducendo così “ il diritto nella vita”. 
Dal principio deterministico di stampo lombrosiano e dal disconoscimento dell’esistenza di una malvagia volizione, deriva l’impossibilità di prevedere una piena imputabilità penale del criminale, il quale si trova ad essere vittima dell’influenza di fattori contingenti esterni ed interni.
La sanzione, quindi, non può sostanziarsi in una mera retribuzione, ma essa deve essere intesa come mezzo giuridico di difesa contro il delinquente, essa incide positivamente sul soggetto correggibile attuando un condizionamento psicologico e interiore capace di dissuadere il reo dalla futura commissione di reati.  
Tuttavia la medaglia ha, come sempre, il suo rovescio: la funzione specialpreventiva racchiude in sé una variante negativa che opera come neutralizzatore di soggetti incorreggibili.  In tutte le ipotesi in cui la pena come strumento di rieducazione non è in grado di produrre effetti positivi, l’unico antidoto alla pericolosità di soggetti autori di reati gravi rimane la neutralizzazione.
Al sistema eliminativo la Scuola positiva sostituisce provvedimenti repressivi volti a difendere la società, influendo inevitabilmente sulle valutazioni circa il quantum di pena da irrogare; essa dovrà essere assolutamente o relativamente indeterminata e, cioè, perdurare fin tanto che non cessi la pericolosità.
 La teoria de quo, abbiamo visto, si articola in chiave risocializzante e in chiave neutralizzante. Queste due finalità non si escludono fra loro, ma coesistono simultaneamente nella disciplina della pena, la quale modella il suo scopo a seconda della natura, correggibile o incorreggibile, dei condannati.
La sanzione penale si trasforma in una misura di sicurezza contraddistinta da finalità curative e da una funzione di tipo preventivo. Nella loro concreta applicazione, tali misure dovranno essere individualizzate, in modo tale da adattarsi alle specifiche caratteristiche soggettive dei delinquenti.
Invero, la sostituzione delle pene con le misure di sicurezza non si realizzò: non vi fu paese che abolì la pena intesa in senso classico istituendo al suo posto un sistema sanzionatorio monistico costituito esclusivamente da misure di difesa sociale, differenziate in base alla maggiore o minore pericolosità del delinquente.  
 L’influenza esercitata dal pensiero positivista sul modo di interpretare il diritto penale si riverberò nella struttura del codice penale del 1930, il quale fece posto alle misure di sicurezza che, contemplate accanto alle pene, comportarono la nascita di un sistema sanzionatorio a “doppio binario”. 
Si tratta, nello specifico, di un sistema costituito da due binari indipendenti su cui corrono pene e misure di sicurezza; un sistema il cui telaio è composto sia da pene tradizionali fondate su una responsabilità colpevole per un fatto di reato e commisurate proporzionalmente alla concreta entità del fatto e, nello stesso tempo, dalla presenza di una differente tipologia di sanzione penale imperniata sul concetto di pericolosità sociale.


2.3. La funzione di prevenzione generale 

 “Lo scopo dello Stato è la scambievole libertà di tutti i cittadini o, in altri termini, di assicurare quella condizione nella quale ognuno può esercitare i suoi diritti completamente al sicuro dalle offese. Ogni offesa contraddice la natura e lo scopo del consorzio civile e, per l’attuazione di questo scopo, è necessario che nello Stato non si verifichi alcuna offesa.” 

Secondo la funzione generalpreventiva, la sanzione penale non è intesa come castigo in sé per il male provocato dall’azione immorale del reo, ma è sorretta da un fine preciso, che è quello di trattenere, attraverso la minaccia, i consociati dal commettere delitti. 
Il superamento delle teorie assolute, che fondano la legittimità della pena su fattori trascendenti, fa sì che della pena emergano pragmaticamente gli aspetti della necessità e dell’utilità.  
A differenza della teoria retributiva che rivolge il suo sguardo al passato, la concezione preventiva protende verso un tempo futuro.
La ragion d’essere della pena si ravvisa nella necessità di assicurare l’ordine e inibire ogni proposito criminoso dei consociati attraverso la previsione di ostacoli di ordine psicologico.
La comminatoria legislativa esplica un effetto intimidativo; l’ordinamento giuridico prevede l’inflizione di una punizione come conseguenza certa e necessaria dell’azione illecita a carico di chi l’abbia concretamente conseguita, in modo tale da dissuadere i consociati dal porre in essere comportamenti contra legem.
L’animo umano è influenzato dal timore di subire una punizione e ciò fa sì che si osservino i patti e il rispetto delle leggi.  
L’efficacia intimidatoria si origina non tanto dalla severità della pena, quanto dalla certezza e dalla celerità dell’applicazione della sanzione, come ci insegna Beccaria.
Le critiche relative alla teoria generalpreventiva intesa in termini di deterrenza, hanno fatto convergere l’attenzione su un’interpretazione della funzione di prevenzione generale, evidenziando la presenza dell’elemento educativo. Nello specifico, la sanzione penale ha anche una funzione di natura “pedagogica”, in quanto accredita i valori sociali protetti dall’ordinamento, esortandone l’interiorizzazione da parte della collettività attraverso la stigmatizzazione di determinate azioni delittuose.
La punizione contribuisce a costituire la coscienza morale del cittadino, unendo la maggioranza dei consociati nel rispetto per la legge e per i valori dominanti tutelati dall’ordinamento giuridico di cui fanno parte. 
Concludendo, il diritto penale viene a costituire un elemento della più vasta “teoria dell’educazione collettiva o socializzazione”,  adempiendo ad una funzione assimilabile a quella assolta dalla famiglia, dalla scuola, dal gruppo dei pari o dalla comunità di appartenenza.

L’impronta delle origini. Il rapporto fra le teorie sulla funzione della pena.

“Questo è un costringimento morale, che presuppone che io mi lasci costringere. Il diritto e la giustizia devono avere la loro sede nella libertà della volontà. Nella minaccia non ci si riferisce alla libertà, bensì alla non libertà, come quando si alza un bastone contro un cane. L’uomo, allora, è trattato come un cane e non secondo il suo onore, la sua libertà.”


Per la determinazione dei fatti da incriminare e punire, la scuola positiva e la scuola classica hanno entrambe contribuito ad identificare e motivare, attraverso l’elaborazione di concezioni etiche e politiche, cosa sia giusto o adeguato del vietare e punire. 
L’idea della retribuzione del male viaggia per secoli attraverso civiltà occidentali, ed è storicamente connessa a concezioni della giustizia che traggono pretesa d’assolutezza dall’aggancio alla religione o a un mondo di valori etici considerati indiscutibili. 
L’universo morale della giusta retribuzione è rappresentato in modo compiuto nella divina commedia.
Il mondo contemporaneo racconta il diritto come strumento fondamentale della pacifica convivenza fra gli esseri umani; visione che esclude la legittimità di un diritto penale che antepone ideologicamente la realizzazione di una giustizia absoluta, slegata dalle ragioni e dai bisogni degli individui riuniti in società. È possibile assegnare ad una qualsiasi autorità terrena, il diritto di comminare supplizi in nome di una visione di giustizia disgiunta da scopi ma vincolata a pretese di assolutezza? 
Il lato debole della funzione retributiva della pena è oggi agevolmente intuibile: radicata sull’intimo collegamento tra le sfere del diritto e della morale e sulla pretesa di annullare il male in senso etico attraverso l’inflizione di una pena, tutta la costruzione retributiva si basa su un principio di segno squisitamente morale. L’espiazione connessa ad esigenze di giustizia metafisica esprime un concetto che, per sua natura, risuona troppo astrattamente filosofico, obsoleto e difficilmente realizzabile, data l’assoluta eterogeneità delle grandezze da comparare: la colpevolezza dell’individuo delinquente e la predisposizione di una misura di controllo eteronoma orientata al soddisfacimento di difesa sociale. Lo Stato, che nel panorama moderno è Stato di diritto, laico e pluralistico, non può fondarsi su un’ideale di giustizia fine a se stessa, che esula da qualsiasi attenzione per il destino dell’autore del reato e che impedisce di dare legittimazione a tutte quelle norme penali volte a sanzionare eventi difficilmente catalogabili come moralmente riprovevoli, ma che comunque turbano l’ordine e la pacifica convivenza.
La reale espiazione auto liberatoria, quando si compie, è frutto di un processo recondito e spirituale, la cui maturazione è interamente svincolata dall’applicazione di pene statuali. 
Il nostro sistema sanzionatorio è intriso dei valori di uno stato sociale di diritto che è volto al perseguimento di obiettivi laici di prevenzione e alla semplice legalità della condotta individuale. La moralità dei singoli è, per sua stessa natura, incoercibile e l’imposizione di un determinato sistema etico non può che rivelarsi aprioristicamente in contrasto con i principi costituzionali posti a tutela della libertà e dignità dell’individuo.
Ci si domanda, a questo punto, come possa udirsi ancora oggi, nel mondo “secolarizzato”, la voce di un sistema repressivo assolutamente noncurante della realtà empirica.
 Invero, sebbene l’idea di una pena che realizzi uno scopo socialmente utile si stia imponendo come processo storico irreversibile, non può negarsi che la visione retributiva, liberata da pretese di assolutezza, riecheggi ancora oggi: il numero crescente di reati agita e infiamma, ora come un tempo, sentimenti di paura e sensazioni di profonda insicurezza che inevitabilmente  defluiscono in bisogni emotivi di punizione; segno di una tenace resistenza di istanze retribuzionistiche che lacerano  il sistema punitivo.
Ad oggi, “quando si parla di retribuzione non ci si riferisce più alla prospettiva degli scopi della pena ma a qualcosa di diverso, che presuppone come già risolto il problema del perché si debba punire” ; l’opzione retributiva vive ancora all’interno dell’attuale dibattito dottrinale e giurisprudenziale in virtù del fatto che essa postula principi imprescindibili di proporzionalità della pena e di personalità della responsabilità penale.  In particolare, la retribuzione invoca un’esigenza di proporzione tra la gravità dell’offesa e il male della condanna inflitto al reo. Il rispetto del principio di proporzione consente all’autore del reato di intendere la pena come giusta e, conseguentemente, di adottare un atteggiamento di maggior collaboratività e disponibilità psicologica nell’intraprendere un percorso rieducativo. La proporzionalità trova espressione nella nostra Costituzione non solo all’art.3, in quanto imprescindibile corollario del principio di uguaglianza, ma anche all’art. 27 Cost., comma I che così recita: “la responsabilità penale è personale”; la personalità della pena esclude che il legislatore possa prevede e il  giudice applicare una sanzione penale sproporzionata al disvalore del fatto commesso ed alla colpevolezza del soggetto.
In seguito al pacifico superamento normativo della prospettiva retributiva che, abbiamo visto, non può essere accettata in toto dall’ordinamento in ragione delle inconciliabili implicazioni supra evocate, dottrina e giurisprudenza hanno proiettato la sanzione penale in una dimensione preventiva, conferendogli così una legittimazione di tipo relativo e non assoluto. L’elemento utilitaristico evita la confusione tra diritto e morale, tipico delle teorie retrospettive.
In riferimento alle teorie di natura preventiva, è doveroso precisare, anzitutto, che tipo di rapporti intercorrono tra la concezione generalpreventiva e la prevenzione speciale.
Ambedue le opzioni hanno plasmato due differenti aspetti della prevenzione: l’uno negativo, l’altro positivo. 
Lo schema logico della prevenzione generale negativa implica l’adozione di strumenti intimidatori e deterrenti volti a dissuadere i consociati dalla commissione degli illeciti. Carrara, nella sua critica alla teoria della prevenzione generale negativa, dichiarò che la società non dovrebbe servirsi “del corpo di un cittadino per intimidire gli altri cittadini martirizzandolo onde persuadere quelli a non offendere le leggi sociali”. 
L’aspetto positivo, invece, è connesso a un diffuso effetto “criminal- pedagogico” della fattispecie: superati i limiti del puro meccanismo deterrente, esso è volto ad esaltare componenti generalpreventive di tipo educativo: l’intendo del legislatore, tramite la formale stigmatizzazione dei comportamenti delittuosi, è quello di ottenere un’adesione spontanea della collettività ai valori sociali tutelati dall’ordinamento. 
Per quel che riguarda la prevenzione speciale, l’aspetto negativo consiste in una coazione psicologica intimidatoria atta a distogliere l’autore del reato dalla possibile reiterazione futura della condotta criminosa e, in extrema ratio, alla neutralizzazione della pericolosità di tutti quei soggetti immuni da terapie. 
L’aspetto positivo si riferisce, invece, al recupero sociale dei soggetti correggibili, da realizzare attraverso un percorso rieducativo individualizzato ed emancipante, con l’intento di incidere positivamente sulla personalità del soggetto autore di reato.
Va chiarito, a questo punto della trattazione, che l’effetto intimidatorio è una conseguenza naturale che esiste, sul piano generale della realtà concreta, ogni qualvolta una norma prevede per la sua infrazione una sanzione penale e, in rapporto al singolo reo, discende da una limitazione della libertà personale.  
Nella nostra odierna struttura sanzionatoria, l’effetto d’intimidazione non può, tuttavia, eccedere quello che è naturalmente congiunto all’esistenza stessa della fattispecie penale e alla mera inflizione di una pena; una serie di principi costituzionali, ai quali non può non conformarsi il regime delle sanzioni penali, sono volti ad impedire che si attuino pene particolarmente severe, le quali potrebbero addirittura avere un efficacia criminogena.
A tal proposito Cesare Beccaria, con felice perspicacia, osservo “è evidente che il fine delle pene on è di tormentare e affliggere un essere sensibile, né disfare un delitto già commesso. A misura che i supplizi diventano sempre più crudeli gli animi umani, che come fluidi si mettono sempre a livello degli oggetti che li circondano, si incalliscono…l’atrocità stessa della pena fa si che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è più grande il male a cui si va incontro; fa si che si commettano più delitti per fuggire la pena di uno solo”. 
Analoghe considerazioni valgono altresì in rifermento all’inflizione della pena nel singolo caso concreto; Il surplus di sanzione sarà fatalmente percepito dal condannato come un atto di avvilente sopraffazione, rendendo vano il messaggio normativo e acuendo la carica di ribellione nei confronti dell’ordinamento. 
La severità della sanzione e la minaccia di mali terrificanti non fungono da fonti evocative crimino-repellenti; se per trattenere gli individui dal porre in essere azioni illecite si predispongono pene particolarmente severe, sono gli stessi principi costituzionali ad essere violati. Il risultato generalpreventivo va riconnesso piuttosto all’effettività della pena in termini di certezza e prontezza dell’inflizione.
Nel momento della creazione della fattispecie penale è imprescindibile tener conto anche di esigenze specialpreventive di recupero sociale, nel senso che illecito e punizione devono essere posti in ragionevole contrappeso; questo è il presupposto fondamentale affinchè il reo possa, in un secondo tempo, percepire la norma come regola di condotta vietata.
Alla teoria preventiva si è debitori per aver introdotto il concetto di rieducazione e riabilitazione sociale che, se oggi non si possono sorreggere unicamente sulla negazione della responsabilità individuale, trovano ragion d’essere nell’utilità, sia per lo Stato sia per i cittadini, che nasce dal fatto che chi ha commesso un reato si astenga in futuro dal tornare a delinquere. 
Al termine di questa sommaria disquisizione, possiamo sinteticamente concludere che l’odierno sistema sanzionatorio ha recepito una concezione complessa della pena, in cui istanze preventive, generali o speciali, coesistono di fatto con quelle retributive.
Ciascuna delle funzioni descritte racchiude, come si è visto, aspetti criticati e principi preservati dalla dottrina e dalla giurisprudenza che hanno escluso l’eventualità di poter comprimere l’essenza della pena in unica funzione, dovendo necessariamente riconoscere la compresenza di tutte. 
Tuttavia, esiste il pericolo che esigenze interpretative differenti tramutino tale coesistenza in terreno di facili dispute per via del dominio di una funzione sull’altra.  Non potendosi stabilire aprioristicamente “una gerarchia statica e assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione”, sarà compito del legislatore coordinare le diverse funzioni, facendo “tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata”.  
Risultando impossibile “stabilire ex ante, un punto di equilibrio dogmaticamente cristallizzato tra le diverse funzioni che il sistema penale, nel suo complesso, è chiamato a soddisfare nel quadro dei valori costituzione”, è necessario comunque che il sistema sanzionatorio sia elastico, “proprio perché potenzialmente idoneo a plasmare i singoli istituti in funzione delle diverse esigenze che quelle scelte per loro natura coinvolgono”.
Il legislatore, nel ruolo di coordinatore delle diverse funzioni della pena, sarà sempre ispirato dalla ricerca costante di un punto di equilibrio tra le varie necessità sanzionatorie e aspetti di politica criminale; egli sarà guidato, all’interno di questo “diritto liquido”, dal principio di proporzionalità e, simultaneamente, dai principi di rieducazione e rispetto della dignità umana.
Retribuzione e prevenzione si dimostrano capaci di conciliare i loro rispettivi scopi; se la missione di un diritto penale laico e secolarizzato non può essere più quella di “realizzare sulla terra una giustizia metafisica”  ma piuttosto quello di garantire la tutela dei beni giuridici e della convivenza delle persone in società, allora gli strumenti puntivi devono essere orientati al perseguimento di uno scopo socialmente utile.


Le conseguenze giuridiche del reato nella previsione del codice Rocco

Nel “sanare il contrasto fra scuola classica e scuola positiva, che divideva gli studiosi italiani dell’epoca in posizioni contrapposte” , il codice Penale del 1930 opta per un sistema penale che ruota attorno  ad uno schema c.d. a “ doppio binario”, in virtù del quale esso basa la propria reazione, di fronte ad un evento delittuoso, su due diverse tipologie di risposta sanzionatoria: la pena tradizionale  inflitta sul presupposto della colpevolezza, da un lato, e le misure di sicurezza, dall’altro.
Ai compilatori del codice Rocco va il merito di aver propugnato, in maniera innovativa, il ricorso alle misure di sicurezza, il quale risulta intimamente correlato alle teorizzazioni della Scuola positiva.
La suddetta scuola, come abbiamo già avuto modo di capire, nega in radice la possibilità di considerare pienamente responsabile il reo per le azioni criminali da esso compiute, in quanto autore di azioni delittuose mai determinate da una libera scelta, bensì da alterazioni discendenti da fattori di tipo biologico, antropologico e sociale. 
Risultava necessaria, allora, l’applicazione di una misura idonea ad eliminare la pericolosità sociale attraverso un programma di risocializzazione. L’acquisizione di tali istanze, intimamente collegate ad una logica “specialpreventiva” della sanzione penale, rappresentava, nell’architettura del codice Rocco, un chiaro allontanamento dalle istanze penologiche proprie della Scuola classica, incentrate sulla presenza, nell’animo di ogni individuo, di un “libero arbitrio” e, quindi, su una concezione della pena saldata al paradigma unicamente “retributivo”.
Un impianto teorico di tal genere, faceva del sistema penale italiano, nel contesto storico degli anni ’30, un modello avanguardista sul versante sanzionatorio.
Le pagine dei lavori preparatori del codice Rocco chiariscono che “tra le varie funzioni che la pena adempie, le principali sono certamente la funzione di prevenzione generale, che si esercita mediante l’intimidazione derivante dalla minaccia e dall’esempio, e la funzione c.d. satisfattoria, che è anch’essa, in un certo senso, di prevenzione generale, perché la soddisfazione che il sentimento pubblico riceve dall’applicazione della pena, evita le vendette e le rappresaglie”.  
La funzione specialpreventiva è invece affidata alle misure di sicurezza, le quali sono dirette a neutralizzare la “pericolosità sociale” del reo, allo scopo di evitare che lo stesso soggetto incorra nella commissione di altri reati futuri.
Il sistema sanzionatorio a doppio binario “non esprime soltanto la compresenza in uno stesso ordinamento di sanzioni penali di natura diversa, ma indica (…) la possibilità di applicare ad un medesimo soggetto, che sia al tempo stesso “imputabile” e “socialmente pericoloso”, tanto la pena che la misura di sicurezza.”  
Rispetto ad un impianto teorico di tale portata, la prassi applicativa svolta all’interno delle aule di tribunale ha manifestato la natura eccessivamente compromissoria del progetto.
La dottrina ritrovò una pesante contraddizione teorica, dovuta al fatto che ove si consideri che ad uno stesso soggetto si possano applicare sia la pena, che è propria di chi è libero di volere e colpevole, sia la misura di sicurezza, la quale invece si commina ove vi siano tendenza a delinquere e pericolosità sociale, suppone una concezione dell’uomo come “diviso in due parti”: libero e responsabile per un verso, e come tale assoggettabile a pena; determinato e pericoloso per un altro verso, e come tale assoggettabile a misura di sicurezza.  
Accanto alla contraddizione teorica sorsero problemi di incongruenza pratica: l’art. 133 c.p. richiede che il giudice, nel giudizio discrezionale di commisurazione della pena, tenga conto della capacità a delinquere del colpevole, desunta da una serie di elementi relativi alla sua vita privata e sociale e alla sua condotta. A sua volta, l’art. 203 richiede che la qualità di persona socialmente pericolosa che serve all’applicazione delle misure di sicurezza si desuma dalle stesse circostanze di cui all’art. 133.
Conseguenza di tale impianto sistematico è che “per il giudizio di pericolosità rilevano quegli stessi elementi che servono per la qualificazione della pena: ma, se è così, finiscono con lo sfumare le differenze dei presupposti applicativi tra pene e misure; e, di conseguenza, diventa artificioso lo stesso principio del doppio binario.” 
Se si considera infine che al trattamento legislativo differenziato riservato alle pene e alle misure di sicurezza non ha mai corrisposto, nei fatti, la predisposizione di differenti strutture che ne consentissero l’applicazione, ben si comprende per quale motivo il sistema del doppio binario sia stato definito in dottrina come “frode delle etichette”. 
La “fisionomia” costituzionale della pena: umanizzazione e fine
         rieducativo

“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostri carceri perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione.” ( Voltaire)

La nostra Costituzione dedica un’unica disposizione alla tematica del finalismo della pena, ossia l’art 27 c. 3, secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” La chiarezza del dato normativo testé citato è solo apparente. A ben vedere, ruotano intorno alle poche parole contenute nella disposizione questioni complesse e controverse. Non vi è, infatti, una pacifica lettura della norma in questione da parte della giurisprudenza costituzionale, la quale ha tentato di delineare i contenuti di una disposizione di carattere generale. Le pronunce più risalenti nel tempo hanno fatto propria una concezione cosiddetta “polifunzionale” della pena. La sentenza n. 12 del 1966 ha ricavato la portata del principio rieducativo da una lettura coordinata delle due parti che costituiscono il terzo comma dell’art. 27 Cost. La sentenza in questione interpreta il principio rieducativo non in senso esclusivo e assoluto, dovendo esso interagire e confrontarsi con le altre funzioni della pena. Testimone di tale concezione è la lettera stessa della disposizione nella parte in cui specifica che la pena “deve tendere alla rieducazione del condannato”, prevedendo così unicamente l’obbligo per il legislatore di non perdere di mira tale specifica finalità e di utilizzare i mezzi idonei a realizzarla, nei casi in cui la pena si presti a tale scopo. Un’eccezione all’interpretazione prevalente appena esposta è rappresentata dalla sentenza n. 204 del 1974, la quale qualifica “il recupero sociale del condannato come fine ultimo e risolutivo della pena”. Viene così individuato un vero e proprio “diritto del detenuto alla rieducazione”. Nella lunga marcia che porta alla valorizzazione della finalità rieducativa si inserisce anche la sentenza n. 364 del 1998, con la quale la Corte, per la prima volta, ancora il principio di colpevolezza ad una finalità rieducativa. Si parte dal presupposto secondo il quale i commi dell’art. 27 Cost. non possono essere letti in maniera frammentaria ma, al contrario, in stretto collegamento, potendo concludersi che, comunque si interpreti la funzione rieducativa, essa richiede almeno la presenza del coefficiente psicologico della colpa dell’agente in relazione agli elementi del fatto di reato, dal momento che sarebbe privo di  senso il tentativo di rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa, non è in grado di intendere e concepire la sua azione delittuosa e, quindi, non è in grado di essere rieducato. La Corte chiarisce che solamente quando alla pena si associa una funzione di tipo deterrente potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili alla colpa dell’agente. 
Oggi la giurisprudenza intende pacificamente la rieducazione come uno degli elementi intrinseci e imprescindibili che caratterizzano l’essenza della pena “nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue.”  In quest’ottica il verbo “tendere” rappresenta solo “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi fra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”. 
Attraverso la sanzione penale si deve offrire al reo la possibilità di orientare la propria esistenza, nel senso del rispetto di quella altrui. Ciò non può rappresentare un adattamento coattivo verso modelli comportamentali eteronomi, né giustificare il tentativo di indebite manipolazioni della personalità, al fine di operare un vero e proprio cambiamento ab externo dell’identità individuale. Si deve piuttosto tendere a favorire una effettiva integrazione del soggetto, attraverso un programma di reinserimento basato sull’emancipazione individuale, attraverso forme efficaci di sostegno socio- culturale.
 “Risocializzazione” significa “l’insieme delle modificazioni degli atteggiamenti sociali del soggetto delinquente, che operano direttamente su fattori di criminogenesi, eliminandoli o attenuandoli, oppure creino o intensifichino la presenza di fattori diversi dal mero timore di nuove pene”. 
Il primo passo per garantire il rispetto del fine rieducativo è rappresentato dalla concreta attuazione di un trattamento penitenziario di carattere individuale; un percorso che tenga conto delle specifiche esigenze e delle peculiari caratteristiche del reo, in grado di fornire gli aiuti necessari per il raggiungimento della possibilità di autodeterminazione.
L’entrata in vigore del nuovo Ordinamento penitenziario introdotto dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 rappresentò, per molti aspetti, una svolta di imprescindibile rilievo per il contesto giuridico italiano. Gli anni settanta sono stati dominati da una propensione all’innovazione e da una profonda attenzione verso le tematiche della pena e della sua esecuzione, cui faceva da contraltare un clima penitenziario incerto e turbolento. Tale elemento, da un lato era da ritenere propulsivo per una riforma in tema di esecuzione penale, ma dall’altro si poneva come ostacolo alle innovazioni. Ci fu un salto di qualità verso l’affermazione del principio rieducativo, il quale “sembra vivere la sua stagione più felice: il principio infatti, non solo si vede pienamente riconosciuto quel rango preminente ad esso attribuito dal legislatore costituzionale, ma viene altresì assunto a principale criterio ispiratore delle proposte di modifica relative al catalogo delle sanzioni.”  
 Il “cuore” dell’intero sistema dell’esecuzione penitenziaria è la rieducazione del condannato, così sottolinea la Riforma dell’Ordinamento penitenziario, la quale marca l’importanza di tale principio collocandolo all’art 1 dell’ordinamento stesso:
“Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”.
Il tenore della norma evidenzia immediatamente l’intento del legislatore di dare concreta attuazione al principio costituzionale cristallizzato all’art 27 Cost., co. 3, a norma del quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Secondo la visione rivoluzionaria della riforma, l’essenza della detenzione in carcere non si esaurisce unicamente nella privazione o nella limitazione dei beni e diritti fondamentali ma essa si estende fino ad abbracciare anche un contenuto positivo. La struttura penitenziaria viene, infatti, intesa come luogo in cui è possibile svolgere numerose attività ed interagire con varie figure professionali, allo scopo di favorire un reale recupero sociale. 
L’art 15 O.P. individua gli elementi del trattamento rieducativo nell’istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle attività culturali e ricreative, nei rapporti con la famiglia e nei contatti con il mondo esterno. L’elemento primario fondante il trattamento penitenziario è il lavoro, centrale nell’attività di recupero del detenuto quale mezzo irrinunciabile, idoneo ad assicurare alla persona l’apprendimento e la conservazione di attitudini sociali che lo agevolino a risolvere i problemi pratici di vita.
La portata del lavoro quale strumento di rieducazione è amplificata ove l’attività del soggetto detenuto possa essere svolta oltre le mura grigie dell’istituto penitenziario. Il lavoro all’esterno, disciplinato dall’art. 21 O.P., oltre a riscattare l’individuo dal delitto commesso, gli fornisce la possibilità di coltivare rapporti interpersonali e di mantenere un contatto con la realtà esterna.
La legge 26 luglio 1975, n. 354 introduce, inoltre, le misure alternative alla detenzione in carcere, le quali superano la logica della esclusività della pena detentiva mantenendo, però, l’idoneità a prevenire future condotte delittuose.
La riforma ha avuto il merito di umanizzare il momento di esecuzione della pena, di rafforzare la tutela accordata al valore della persona, che ha diritto a veder tutelati i propri diritti inviolabili anche nel contesto carcerario. 

Identità in carcere. Riflessioni conclusive e possibili scenari per il futuro.
“L’immagine che si ha di una prigione è uno schema freddo e sintetico. Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l’anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata dalle sue stesse grida, dall’imprecare, sanguinare, chiedere. Uno spazio ove al suo interno non esiste principio né fine, né prima né dopo, alcun tempo. Né sopra né sotto, alcuno spazio. Un movimento presente, passato, futuro; un punto di contatto, di aggregazione, di disgregante follia. Linee e arredi spogli, poveri e insignificanti, ma a ben guardare, nel lungo tempo, divengono segni importanti: presenza viva nonostante tutto. In questa prigione così oscura, tetra e dura, tanto da divenire un incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso dal tempo: esiste un’umanità che sopravvive e infine chiede di vivere. Questa cella, questo recinto stretto, questo carcere a distanza siderale dall’essere, difficilmente si impara ad accettarlo come “intorno”, a coloralo con il lavoro, la poesia, il teatro, la meditazione, i rapporti umani finalmente nati, mantenuti, custoditi.” 


Si avverte sempre di più la necessità di una ricostruzione in termini teologico-normativi del sistema delle sanzioni e della rifondazione negli stessi termini della normativa sulla commisurazione. Mezzi e scopi vanno dedotti, innanzitutto, dalla legge fondamentale, dove sono precisati i valori che, divenuti principi giuridici, danno vita ai parametri in base ai quali ogni altro diritto deve essere misurato. Qualsiasi sistema penale ha due funzioni che non sempre si lasciano contemperare senza attriti. Da un lato, il controllo di comportamenti connotati da dannosità sociale e, dall’altro, il controllo del potere statuale che interviene su tali condotte lesive di interessi socialmente tutelati attraverso uno strumento gravemente lesivo dei diritti fondamentali della persona, quale è la pena detentiva.
A questo si aggiunge una diffusa prassi giurisprudenziale che rende del tutto incerta la risposta sanzionatoria tradizionale e che ha scaricato sul processo in sé le esigenze di repressione, facendo, ad esempio, un uso spregiudicato della custodia cautelare: a porre la giustizia in una situazione di contrarietà alla Costituzione è il dato secondo cui la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio si aggira intorno al 30 per cento; cifra preoccupante se si considera che la carcerazione preventiva, in base all’art. 13 Cost, per il quale “la libertà personale è inviolabile”, dovrebbe essere nient’altro che un’eccezione ben circoscritta, tenendo conto anche del fatto che un uso smodato mortifica e vanifica il fondamentale principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza.
De iure condendo, al fine di scongiurare le estreme conseguenze, la dottrina auspica che venga ripristinata e assicurata una sostanziale continuità tipologica e quantitativa tra pena edittale, pena irrogata e pena eseguita. In modo che il principio di rieducazione riceva un’attuazione costituzionalmente equilibrata.
Le vie per correggere le distorsioni dell’attuale sistema sanzionatorio sono indicate da gran parte della dottrina in una riforma, divenuta ormai improrogabile, che intervenga sulle diverse forme di sanzioni previste nel codice penale e nella legislazione complementare, coniugando il rispetto del principio di umanizzazione della pena con la sua certezza ed effettività.
Le indicazioni della dottrina non muovono nel senso di un completo abbandono della pena detentiva che, seppur auspicato, sembra irrealizzabile nell’immediatezza, ma vanno verso una ridefinizione delle linee del sistema sanzionatorio, ridimensionando l’egemonia del carcere e chiedendo un’opera di riforma strutturale volta a introdurre pene principali non detentive che sottraggano terreno alla carcerazione, relegata come ultima ratio, e quindi applicabile esclusivamente per fattispecie di maggior gravità. Ciò implica la valorizzazione, specialmente nei confronti di autori non recidivi, per i quali il comportamento delittuoso ha carattere sostanzialmente occasionale, di misure diverse dalla pena carceraria, giacché quest’ultima, lungi dal rieducare, tende ad avvicinare il condannato ai valori socialmente negativi impregnati nella sottocultura carceraria.
In tutte quelle ipotesi, invece, che doverosamente reclamano la predisposizione della pena detentiva carceraria, il momento esecutivo dovrà essere sempre improntato sul rispetto della dignità umana, evitando sofferenze addizionali rispetto a quelle inevitabilmente discendenti dallo stato di privazione della libertà, e dovrà diligentemente evitare ogni effetto di desocializzazione.
Il positivo raggiungimento di un tale obiettivo non può prescindere da una considerazione fondamentale, la cui sottovalutazione rischia di compromettere totalmente l’efficacia di una riforma del sistema sanzionatorio, e cioè quella dei mezzi disponibili e, quindi, di quelli da esigere ai fini di una effettiva riforma. Un progetto che voglia orientarsi ad una razionalità rispetto a scopi e valori deve preoccuparsi innanzitutto di verificare le condizioni per la propria attuazione, in termini di mezzi a disposizione e di risorse umane. Purtroppo la crisi del welfare state, e la riduzione delle spese per interventi sociali, toglie spazio economico e culturale alle tematiche assistenzialistiche, quindi agli interventi di tipo rieducativo e pedagogico che, nella nuova logica di distribuzione della spesa pubblica, essi, se efficacemente attuati, appaiono eccessivamente costosi. Ad aggravare la situazione contribuisce poi la piaga del sovraffollamento carcerario, che ostacola l’equa ripartizione delle risorse disponibili, in termini di operatori, di attività trattamentali e di gestione degli spazi.
La dottrina auspica pone particolare attenzione ad un più massiccio utilizzo delle pene pecuniarie, al fine di contrastare la delittuosità più elevata, economica ed organizzata, andando a colpire proprio il perseguimento antigiuridico di un interesse di tipo economico. 
Si sostiene con forza, anche, l’introduzione di pene interdittive, che avrebbero la finalità di prevenire la reiterazione di reati posti in essere in specifici contesti professionali/lavorativi e all’incremento del ricorso a sanzioni recentemente introdotte nel nostro sistema penale e utilizzate ancora in maniera limitata, come il lavoro di pubblica utilità; infine, l’utilizzo di istituti a forte valenza risocializzativa, come quelli attualmente presenti nell’ambito del sistema minorile ( sospensione del processo e messa alla prova). 
In riferimento alle soluzioni finalizzate a ritessere la trama del sistema carcerario lacerato dalla disarmonia tra previsioni legislative e sentire collettivo, la chiave in grado di aprire le porte a un effettivo reinserimento sociale, a modesto parere della scrivente, va ricercata nel tentativo di limitare la distanza fra il mondo che esiste oltre le sbarre dell’istituto penitenziario e il mondo libero della collettività, attraverso un’opera di demolizione di pericolosi pregiudizi e di calcolo costi-benefici.
In particolar modo, il modo migliore per avvicinare il detenuto alla collettività, è rappresentato dall’espiazione della pena in forma alternativa al carcere, evitando così il contatto con un luogo che risulta essere fortemente criminogeno: il detenuto continuerebbe, senza soluzione di continuità, a sentirsi una parte della società, evitando in tal modo la spersonalizzazione della propria identità.
In questo modo le carceri sarebbero meno affollate e i detenuti ivi reclusi potrebbero godere di un trattamento rieducativo maggiormente personalizzato e attento alle specifiche esigenze di ciascuno.
Esiste, a oggi, un’idea distorta di “certezza della pena”, intesa non come “certezza della qualità della pena” ma come punizione da scontare esclusivamente in carcere.  
Più i cancelli del carcere risultano invalicabili più i cittadini si sentono al sicuro. Al contrario, come già accennato nel presente lavoro, il carcere è suscettibile di produrre altro carcere e il sovraffollamento incide positivamente sulla crescita del fenomeno della recidiva.  Un luogo comune ingannevole, questo appena citato, che ha contribuito alla diffusione di una cultura carcero-centrica e dell’idea che la concessione di una misura alternativa alla carcerazione sia un ingiusto regalo concesso al detenuto. La collettività deve comprendere che la certezza della pena significa riconoscere il finalismo rieducativo della pena ed eliminare quello che Platone definiva “il desiderio di vendicarsi come una belva”.
 Pur essendo comprensibile e legittima la volontà di punire un comportamento illecito, il carcere dovrebbe coinvolgere tutta la popolazione dal momento che il condannato, una volta espiata la sua pena, tornerà libero nella comunità di appartenenza, ed è interesse di tutti i consociati che egli non incorra nel pericolo di reiterazione della condotta criminosa. 
Dovrebbe esserci, quindi, una tendenziale prevalenza assiologica delle misure alternative rispetto alla reclusione in carcere, da considerarsi uno strumento giudiziale da applicare, come abbiamo visto, in extrema ratio; una misura di natura eccezionale che deve comunque garantire un efficace trattamento penitenziario individualizzato.  Se si considera quanto l’ambiente sia in grado di influire sul modo di agire e di pensare degli individui, occorre limitare il numero di presenze per ogni sezione e, soprattutto, procedere alla separazione degli imputati dai condannati e dei giovani al di sotto dei venticinque anni dai detenuti adulti, allo scopo di evitare possibili influenze dannose reciproche. La separazione eviterà che i soggetti più giovani vengano inglobati da un clima incapace di generare concrete possibilità di recupero.
Inoltre, se considerassimo il reato come elemento giuridicamente rilevante di una più complessa relazione sociale in grado di provocare sofferenza e dolore ad individui in carne ed ossa, allora risulterebbe necessaria l’attivazione di forme di dialogo e riconciliazione fra la persona offesa e l’imputato. Per questo motivo in tempi recenti si sta facendo strada un nuovo modello di giustizia che scaturisce “dall’amara consapevolezza dell’inefficacia dei sistemi di giustizia penale, fondati ora su politiche di deterrenza ora su programmi di riabilitazione.”   La “mediazione penale” ha come obiettivo quello di riconciliare i soggetti configgenti tentando di riparare le conseguenze negative, soprattutto emozionali, prodotte dal comportamento illecito. La Giustizia riparativa è un nuovo linguaggio per analizzare il reato che, superando la logica della distinzione fra vincitori e vinti, da un lato stimola la mente del reo ad una concreta riflessione sulle ragioni a fondamento del proprio agire delittuoso e sulle conseguenze negative che questo ha prodotto e, dall’altro, valorizza il ruolo della vittima dando voce alla sua sofferenza.
Il modello di mediazione penale, in quanto giustizia che “cura” anziché “punire” , può rappresentare un valido strumento atto ad evitare, dove possibile, il ricorso alla pena o al processo, avvalendosi di tecniche extragiudiziali di composizione del conflitto, anche se ovviamente non è in grado di sostituire totalmente la giustizia penale e l’applicazione della pena detentiva. 
In ultimo, preme approfondire un altro punto essenziale alla conclusione di questo elaborato: non è pensabile poter sconfiggere la criminalità operando esclusivamente sul versante repressivo, delegando il compito unicamente alla magistratura e alle forze dell’ordine. La lotta al crimine e la consequenziale riduzione del numero di detenuti presenti nelle carceri nazionali, va simultaneamente portata avanti su più fronti. In special modo si deve agire sulle giovani generazioni al fine di costruire una solida coscienza civile e critica. Nonostante siano passati duecentotrenta anni dalla pubblicazione dei “Delitti e delle pene”, il pensiero di Cesare Beccaria è straordinariamente attuale e, inevitabilmente, esso riaffiora alla nostra memoria con tutta la sua forza innovatrice; un testo antico che, al contempo, è fotografia di principi universali che dovrebbero guidare il nostro cammino legislativo. 
“Meglio prevenire i delitti, che punirli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità, o al minimo d’infelicità possibile, per parlare secondo tutti i calcoli dei beni e dei mali della vita. Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è crearne de’ nuovi: egli è un definire a piacere la virtù e il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci al delitto? Bisognerebbe privare l’uomo dell’uso dei suoi sensi. Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi siano chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impegnata a distruggerle. Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole.” 
Gli elementi che minacciano la pacifica convivenza fra gli esseri umani hanno radici diverse; essi non derivano unicamente da fattori di tipo economico, naturale o storico, ma anche da interventi di natura politica che antepongono l’interesse particolare al bene collettivo; le strategie seguite dal legislatore nei vari settori della giustizia penale si intrecciano in un viluppo di scarsa coerenza e dagli esiti deleteri, in termini di “immagine” delle istituzioni.  
Occorre, in primo luogo, garantire l’esistenza di una pena certa e indefettibile, contribuendo così a favori l’insorgere, nelle menti degli individui, di un’associazione causale diretta fra crimine e risposta punitiva e, altrettanto importante, è necessaria una solida educazione alla legalità,  che è la chiave per garantire una realtà fatta di giustizia e di libertà, per permettere all’essere umano di condurre una convivenza pacifica basata sul principio per cui la legge è espressione di un patto sociale e sull’idea di interesse comune.
Infine, “è necessario far emergere nell’opera educativa in modo vigoroso la dignità e la centralità della persona umana, l’importanza del suo agire in libertà e responsabilità, il suo vivere nella solidarietà e nella legalità.”  


Dott.ssa Martina Carducci
Laureata in  Scienze criminologiche per l'investigazione e la sicurezza presso l'Università degli Studi di Bologna ed in Giurisprudenza;
Operatrice penitenziaria – Associazione SS. Annunziata Onlus
Cura e gestione dello sportello informativo/orientativo S.I.O destinato alla popolazione detenuta degli Istituti penitenziari di
Ancona ( Casa Circondariale di Montacuto e Casa di Reclusione di Barcaglione).

NOTE 
1)CONSTANT B., De la détention, in Principes de la politique.
2)NIETZSCHE F., Genealogia della morale. Uno scritto polemico, 1887, trad. it. Milano 1996, p.69.
3)SALVATI A., Concezione della pena e ruolo delle istituzioni pubbliche, 2010.
4)PERROTTA G., Compendio di diritto penale. (Parte generale), 2015.
5)MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Milano. 1967, p. 204.
6)BECCARIA C., “Dei delitti e delle pene”, 1764.
7)BECCARIA C.,” Dei delitti e delle pene”, 1764.
8)SBRICCOLI M., “Storia del diritto penale e della giustizia”. Scritti inediti e inediti (1972- 2007).
9)MOCCIA S., “ Il diritto penale tra essere e valore”, 2006.
10)MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV ed. 2012, p.4.
11)GROSSO C.F., PELISSERO M., PIETRINI D., PISA P., Manuale di diritto penale. Parte generale,2013.
12)FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2007. Cit. pag. 25.
13)FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2007, cit. pag. 25.
14)MUSCO E., la misura di sicurezza detentiva, 1978, cit. pag. 36.
15)V. FEUERBACH, Revision der Grundsatze und Grundbegriffe des positiven peinlichen rechts, parte I, 1799.
16)MANNOZZI, la commisurazione giudiziale: la vicenda sanzionatoria della previsione legislativa alla prassi applicativa, I convegno nazionale dell’associazione italiana dei professori di diritto penale, Firenze, 2012, in Riv. It. Proc. Pen., 2013, pag. 1222.
17)PULITANO’ D., Diritto penale, 2009, cit. pag. 20.
18)FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale,2007, cit. pag. 712.
19)PULITANO’ D., Diritto penale, cit. pag. 22.
20)D.PULITANÒ, “ Diritto penale”, 2013, pag.51.
21)FIANDACA-MUSCO, “ Diritto penale”, cit. pag. 715.
22)TRONCONE P., “Manuale di diritto penitenziario”, p. 24.
23)CARRARA F., “Programma del corso di diritto criminale”, cit. pag. 407.
24)PALAZZO, “Le pene accessorie nella riforma della parte generale e della parte speciale del codice”, 1978.
25)BECCARIA C., “Dei delitti e delle pene”.
26)S.MOCCIA, “ Il diritto penale tra essere e valore”, 2006.
27)Corte Cost., sent. n. 306, 7 agosto 1993.
28)M. ROMANO, F.STELLA, Introduzione, in M.ROMANO, F. STELLA, “Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati”, Bologna, 1980, pag. 7.
29)FIANDACA-MUSCO, diritto penale. Parte generale, 2007, cit. pag. 685.
30)FIANDACA- MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit. pag. 686.
31)FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit. pag. 686.
32)FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale. Cit. pag. 687.
33)FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale. Cit. pag. 687.
34)Corte Cost., sentenza ed.  2011, n.183, in www.giurcost.org.
35)Corte Cost., sentenza ed. 2011, n.183, in www.giurcost.org.
36)FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, 2007.
37)MARIANI E., Crisi del sistema sanzionatorio e prospettive evolutive. Un’analisi criminologica dalla giustizia penale minorile a quella ordinaria, 2014, pag. 23.
38)MARIANI E., Crisi del sistema sanzionatorio e prospettive evolutive. Un’analisi criminologica dalla giustizia penale minorile a quella ordinaria, 2014, pag. 25.
39)GALBIATI R., STASIO D., CARCERI Il carcere «chiuso» riduce la sicurezza in www.ilsole24ore.com, 2014.
40)CIAPPI S., COLUCCIA A., Giustizia criminale. Retribuzione, riabilitazione e riparazione: modelli e strategie di intervento penale a confronto, 1997, pag.105.
41)CERETTI A., MANNOZZI G., La sfida, pag.4.
42)MOSCONI G., intervento in Giornata nazionali di studi, Casa di reclusione Padova, 23 maggio 2008.
43)BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, 1764.
44)CESARI C., Le clausole di irrilevanza  del fatto nel sistema processuale penale, 2005, pag. 51.
45)Commissione ecclesiale giustizia e pace, Educare alla legalità, Roma, 4 ottobre 1991.












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