ANALISI ANTROPOLOGICA E LOGICA DELLA DISUGUAGLIANZA DI GENERE ITALIANA


Per un’attenta comprensione della disuguaglianza di genere nel tessuto culturale italiano è necessario l’utilizzo di diverse discipline scientifiche quali l’antropologia filosofica, la statistica e la logica e, solo infine, il diritto.
Infatti, per esaminare correttamente i rimedi attuati dallo Stato italiano a tutela della disuguaglianza di genere, dapprima bisogna comprendere il modus vivendi della società in cui viviamo, verificare statisticamente cosa accade e, da ultimo, analizzare i rimedi italiani in modo tridimensionale (e, quindi, da un punto di vista istituzionale, economico-lavorativo e culturale).


Iniziando dall’analisi antropologica della società, si ricordi come Horkheimer, in “Considerazioni sull’antropologia filosofica” del 1935, sottolineasse che il compito principale dell’antropologia filosofica moderna fosse volto alla ricerca di una norma capace di dare un senso alla vita dell’individuo nel mondo attuale. La ratio, infatti, poggia sul crollo generalizzato dei grandi sistemi filosofici che, di conseguenza, ha reso sempre più difficile la comprensione di se stessi e l’identificazione dei tratti caratteristici dell’esistenza umana. Detta crisi si fonda da un lato nella perdita di autorevolezza della rivelazione religiosa e, dall’altro, nell’inutilità della deduzione dei principi morali correttamente praticata sino al Kantismo: è proprio nella metafisica, quindi, che ci si sforza di presentare la vera immagine dell’uomo come fine dell’agire e, attraverso l’antropologia filosofica moderna, si cerca di giustificare pienamente il complesso dell’agire umano. 
Senza dubbio alcuno, anche la dilagazione dei sistemi informatici ha partecipato al crollo generalizzato dei grandi sistemi del nostro secolo: da ciò, l’obbligatorietà della formazione in un sistema di equipaggiamento istituzionale in una natura sempre più culturalmente elaborata dall’uomo in cui le istituzioni, coagulo di forme in cui gli esseri umani vivono insieme e lavorano, hanno il ruolo di consentirgli un orientamento sicuro in un mondo complicato.
Ancora, in “linguaggio e società”, Levy Strauss si chiede se sia possibile estendere i metodi matematici di predizione alle scelte sociali: per Wiener (matematico e statista statunitense, famoso per le sue ricerche sul calcolo delle probabilità) la risposta è negativa e i motivi sono due. 
In primo luogo, perché l’influenza dell’osservatore è annullata solo nelle ricerche matematiche più avanzate: l’esempio è quello dell’astrofisica, il cui oggetto è talmente vasto che l’influenza dell’osservatore non rileva -a differenza di quanto avviene nelle scienze sociali le cui modificazioni imposte dall’osservatore sono dello stesso ordine di grandezza dei fenomeni studiati-.
In secondo luogo, perché i fenomeni sociologici e antropologici sono definiti dai particolari interessi dell’osservatore. L’analisi matematica applicata alle scienze sociali, quindi, può fornire risultati poco interessanti se l’osservatore non è in grado di liberarsi completamente della propria cultura, o dalla cultura da cui desume i suoi metodi e le sue ipotesi di lavoro. 
L’unica eccezione si rinviene nella linguistica strutturale, soprattutto se considerata da un punto di vista fonologico. Ed invero, quasi tutte le condotte linguistiche si collocano al livello del pensiero inconscio non avendo, perciò, contezza delle leggi sintattiche e morfologiche della lingua durante l’eloquio. Anche il senso delle parole non è cosciente: se la formulazione si fonda sul pensiero scientifico, la lingua, al contrario, è frutto di un’elaborazione collettiva. Pertanto, l’influenza dell’osservatore nella linguistica è trascurabile poiché non è sufficiente l’acquisizione di coscienza del fenomeno per modificare parte di esso. 
La conoscenza della struttura fonologica di una lingua e le regole che consentono il raggruppamento di vocali e consonanti consente lo sviluppo di una lunga serie statistica. Sarà facile elencare la lista delle combinazioni di fonemi che formano le parole di n sillabe esistenti e di tutte le altre combinazioni compatibili con la struttura della lingua preliminarmente definita. Si otterrebbe, così, un quadro esauriente di strutture fonologiche a n opposizioni (dove n è tanto grande quanto si vuole). Inoltre, si potrebbe creare una tabella periodica delle strutture linguistiche che ne consentirebbe lo studio e la percezione dell’evoluzione, paragonabile a quella creata da Mendeleev per gli elementi di chimica moderna. 
La domanda, ora, è se una simile riduzione possa essere operata per altri tipi di fenomeni sociali e, in caso affermativo, se un metodo identico potrebbe condurre agli stessi risultati. Rispondendo affermativamente, si è verificato come le diverse forme di vita sociale siano sostanzialmente della stessa natura; siano, cioè, sistemi di condotte ciascuno dei quali è una proiezione, sul piano del pensiero cosciente e socializzato, delle leggi universali che reggono l’attività inconscia dello spirito. Il metodo della costruzione di relazioni astratte e costanti è stato utilizzato anche per lo studio dell’organizzazione sociale e, in particolare, per la comprensione delle regole matrimoniali e dei sistemi di parentela. 
Queste regole del matrimonio e della parentela, infatti, assicurano la circolazione delle donne nel gruppo sociale e sono volte a sostituire le relazioni di origine biologica con un sistema sociologico di acquisizione di parentela. L’ipotesi in parola consente uno studio matematico di tutti i tipi di scambio concepibili tra n partner per dedurre regole di matrimonio in società esistenti e, contemporaneamente, capirne il funzionamento e l’applicazione. 
Orbene, l’ipotesi iniziale è stata confermata dalla dimostrazione deduttiva che tutti i meccanismi di reciprocità noti nell’antropologia classica che si poggiavano sull’organizzazione del matrimonio dualista (e a multipli di due), formano casi particolari di una reciprocità più ampia, tra un numero qualunque di partner. Questa semplice dimostrazione scientifica è stata condotta stabilendo che le regole del matrimonio e i sistemi di parentela sono considerati una specie di linguaggio e, cioè, un diagramma di operazioni destinate ad assicurare, tra individui e gruppi, un certo tipo di comunicazione. È evidente, quindi, che il messaggio “le donne del gruppo che circolano tra clan o famiglie” (e non “le parole del gruppo che circolano tra individui”) non altera l’identità del fenomeno considerato in entrambi i casi. Pertanto, basterà chiedersi se le differenti modalità di comunicazione, ossia le regole alla base del matrimonio e del linguaggio, possano essere connesse a strutture inconsce similari. 
Per chiarire: il mondo è stato diviso in cinque aree per creare una corrispondenza formale tra la struttura della lingua e quella del sistema di parentela. Ad esempio, nell’area indoeuropea, l’istituto del matrimonio si fonda sulla coesione sociale offerta da matrimoni fra congiunti in cui il grado di parentela è lontanissimo, se non impossibile da rappresentare. A ciò corrisponde una formula semplice di scambio generalizzato: se la struttura linguistica fosse analoga a quella di parentela, ne risulterebbe una struttura semplice e una complessità di elementi.
Nell’area cinotibetata, al fine di assicurare la coesione sociale con minima spesa, la struttura prediletta è quella del matrimonio preferenziale con la figlia del fratello della madre: nella lingua, in conseguenza, la struttura è complessa e gli elementi sono pochi. 
Nell’area africana si applica il c.d. prezzo della fidanzata associato alla frequente proibizione del matrimonio con la sposa del fratello della moglie: così come per la lingua, questa ben rappresenta la modalità intermedia tra i due tipi esaminati prima.
L’area oceanica, invece, ha struttura semplice e pochi elementi. 
L’area nordamericana, infine, consente l’analisi dell’abolizione della distinzione tra scambio ristretto e scambio generalizzato mediante l’applicazione simultanea di due formule semplici per garantire matrimoni tra gradi lontani. In termini linguistici, talune lingue potrebbero comportare elementi di un numero relativamente elevato, atti ad articolarsi in strutture relativamente semplici, ma a costo di una asimmetria imposta a queste ultime.
Nonostante il carattere eccessivamente precario e ipotetico di questa breve argomentazione, la ricostruzione antropologica -che poggia sulla lingua e sul matrimonio- sopra menzionata è stata proficua per l’analisi strutturale ed equiparata dei costumi, delle istituzioni e delle condotte sanzionate dal gruppo. Lo studio minuzioso di ciò permetterebbe la comprensione delle fondamentali analogie tra manifestazioni della vita in società apparentemente lontanissime tra loro quali il linguaggio, l’arte, il diritto e la religione. 
Ancora: Charles Taylor in “Multiculturalismo, lotte per il riconoscimento” osserva come i concetti cardine della politica contemporanea siano il bisogno e la domanda di riconoscimento. Il primo è la forza motrice dei movimenti politici nazionalistici, la seconda emerge prevalentemente nella difesa di gruppi minoritari, subalterni e in qualche forma di femminismo. Sia nella difesa di gruppi minoritari che in forme di femminismo, la domanda di riconoscimento si radica nel legame tra riconoscimento e identità e ricalca la visione che ogni individuo ha di se stesso e delle proprie fondamentali caratteristiche che lo rendono unico.  
Tuttavia, Jurgen Habermas osserva che, nonostante ognuno di noi abbia una propria visione e delle caratteristiche personali, è essenziale il riconoscimento (o la mancanza di riconoscimento) da parte degli altri. Quindi, se “gli altri significativi” o la società che lo circonda gli rimanda, come uno specchio, l’immagine di sé che lo limita, lo sminuisce o lo umilia fino ad arrivare a una forma di oppressione che gli impone un modo di vivere, l’individuo o il gruppo possono subire un danno reale.  
Proprio con riferimento alla disuguaglianza di genere -che qui rileva- secondo alcune femministe le donne, interiorizzando la rappresentazione della propria inferiorità, sono state indotte ad accettare un’immagine di sé svalutativa nelle società patriarcali. E, nonostante parte di ostacoli oggettivi al loro progresso sia venuta meno, sono state ugualmente incapaci di sfruttare le nuove opportunità per l’immagine deprezzata che era loro imposta nel tempo. Analogicamente, lo stesso atteggiamento è stato utilizzato per le persone di colore: per generazioni, la società “bianca” ha proiettato un’immagine che nel tempo è stata interiorizzata. L’autodisprezzo, per questo, è diventato uno dei più importanti strumenti di oppressione. 
Quindi, il compito primario della società è quello di liberarsi dall’identità (distruttiva) imposta dall’esterno. Sul punto è necessario considerare attentamente due cambiamenti avvenuti nella nostra società che, congiuntamente, hanno reso inevitabile la forte preoccupazione per la percezione dell’identità e del riconoscimento.
Il primo cambiamento riguarda il crollo delle gerarchie sociali su cui si fondava il concetto di onore (nell’accezione di “preferences” che Montesquieu spiegava osservando come, nell’ancien regime, per avere onore era essenziale che non appartenesse a tutti). L’unico concetto compatibile nella nostra società democratica è, però, il concetto di dignità. La dignità, quindi, sostituisce l’onore. 
La seconda modifica riguarda, invece, il concetto di identità. L’identità nasce insieme all’ideale della fedeltà a se stessi e al proprio modo di essere c.d. “identità individualizzata settecentesca”. Lionel Trilling, nel 1969, la definisce “autenticità”. Quest’ultima si fonda sullo spostamento dell’accento morale alla voce interiore per giudicare il giusto e l’ingiusto. L’idea della voce interiore si ritrova in Sant’Agostino (secondo cui il cammino verso Dio passa per la nostra autocoscienza), in Rousseau (per il quale la salvezza morale viene dal recupero di un contatto morale autentico con noi stessi c.d. “le sentiment del l’existence”) e in Herder (che augura il concetto di fedeltà a noi stessi secondo cui ognuno ha un modo originale d’esser uomo). Orbene, anche se la fonte del concetto di originalità risiede in noi stessi, è fondamentale il carattere dialogico per poterla sviluppare appieno. Abbiamo, quindi, bisogno di relazioni con gli altri per sentirci completi. 
È a questo punto che emerge il ruolo dello Stato che, da un lato, dovrà preferire il concetto di dignità a quello di onore attuando la politica dell’universalismo e, dall’altro, dovrà comunque applicare la politica della differenza consentendo a ciascuno di essere se stesso e di essere apprezzato per le proprie e irripetibili caratteristiche. Entrambe le forme di applicazione (poggiate sulla nozione di eguale rispetto) reggono su una base universalistica.
Se per il primo il fulcro è l’identico in tutti e il secondo impone il riconoscimento di differenze, è evidente come questi due modi di fare politica entrino in contrasto: la critica che la prima forma fa alla seconda è la violazione del principio di non discriminazione, la critica che la seconda fa alla prima è la negazione dell’identità pretendendo di calzare tutti gli esseri umani -senza distinzioni- in uno stampo omogeneo. L’accusa, poi, si spinge fino a sostenere che il presunto insieme neutrale di principi (ciechi alle differenze) rispecchia una cultura unica ed egemone, cosicchè solo le culture minoritarie e oppresse sono costrette ad assumere una forma estranea. Di conseguenza, la presunta società equa e cieca alle differenze non solo è disumana (perché sopprime le identità) ma è, a sua volta, fortemente discriminatoria.
Passando ora e concretamente al livello italiano, si diceva che il problema della disuguaglianza di genere impone un’osservazione tridimensionale.
Circa la dimensione istituzionale, pur essendoci ancora molta strada da percorrere, sono stati fatti alcuni passi in avanti sulla parità tra il genere femminile e quello maschile: tutto ciò è testimoniato dalla collocazione dell’Italia al 76º posto su 153 Paesi nel Global Gender Gap Report.
Anche nelle istituzioni pubbliche la mancanza di rappresentatività del genere femminile è dovuta al fatto che, secondo l’impostazione tradizionale, la partecipazione politica è un concetto neutro e improntato al principio di uguaglianza formale e non sostanziale. Di conseguenza, le prime leggi adottate negli anni ‘90 -e finalizzate all’introduzione dell’istituto delle quote di genere- sono state, a più riprese, reputate incostituzionali: da un lato, la candidabilità è stata equiparata all’eleggibilità (dal momento che queste leggi imponevano ai partiti l’inserimento in liste di soggetti di genere diverso); dall’altro, si faceva riferimento al divieto di correttivi di genere in grado di alterare l’uguaglianza formale. 
Solo successivamente il parlamento ha modificato la stessa Costituzione con legge costituzionale n. 2 del 2001 (consentendo direttamente alle regioni la rimozione degli ostacoli alla parità tra uomini e donne nella vita sociale, culturale ed economica e nell’accesso alle cariche elettive ex art. 117 comma 7 Cost.), sia con legge costituzionale n. 1 del 2003 (che ha modificato l’art. 51 Cost. sull’accesso al parlamento, ai pubblici uffici e alle cariche elettive). Nel tempo, anche la Corte Costituzionale ha mutato indirizzo nell’interpretazione dei diritti politici informati al principio di uguaglianza sostanziale (sul punto si veda la sentenza n. 4 del 2010). 
Grazie all’introduzione delle “quote rosa”, la partecipazione femminile in parlamento è passata dal 5 al 35% in settanta anni di storia repubblicana. Tuttavia, la maggior parte dei posti apicali rimane ricoperta da uomini. Si pensi alle Università: solo 7 rettori su 84 in Italia sono donne ma, proprio un mese fa, la Prof.ssa Antonella Polimeni diventava rettore della Sapienza (la più grande Università di Europa, fondata nel 1303) con il programma di  “percepire la ricchezza del pluralismo e della sua biodiversità”.
Per quanto riguarda, invece, le società private, la legge a termine Golfo-Mosca, approvata nel 2011, aveva previsto che il genere meno rappresentato avesse almeno 1/3 dei rappresentanti nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. Quasi a scadenza dell’efficacia della legge, una serie di studi ha evidenziato come la presenza femminile avesse portato un valore aggiuntivo (anche in termini di redditività) alle imprese: alla luce di ciò, la legge Golfo-Mosca è stata prorogata e riproposta per sei mandati consecutivi, aumentando la quota minima da 1/3 terzo a 2/5.
Con riferimento alla pubblica amministrazione, infine, ai sensi all’art. 48 del Codice di pari opportunità, le P.A. sono tenute ad adottare azioni positive volte a superare gli ostacoli che, di fatto, ne impediscono la piena realizzazione: la Direttiva del 2007, conosciuta come “Direttiva Nicolais Pollastrini” (diretta ai vertici delle amministrazioni e ai responsabili del personale), dispone che la valorizzazione delle pari opportunità non è fine a se stessa ma assicura la qualità dei servizi resi ai cittadini, tra cui il buon andamento previsto dall’art. 97 Cost. La Direttiva in parola è stata sostituita dalla nuova direttiva n. 2 del 2019, che ne conferma tutti i principi e valorizza il ruolo dei Comitati Unici di Garanzia affinché si abbia un’applicazione trasversale della parità di genere. 
A livello economico-professionale, invece, permane la disparità di occupazione nel mercato del lavoro: continua la disparità negli avanzamenti di carriera e, a parità di mansioni, le donne percepiscono uno stipendio inferiore. Si auspicano, quindi, degli interventi efficaci di policy e, soprattutto, il superamento degli stereotipi di genere.
Proprio riguardo al superamento degli stereotipi, rileva la dimensione culturale: infatti, sia la dimensione istituzionale che quella economica traggono la loro origine dalla dimensione culturale che passa attraverso il linguaggio e, per quello che ci concerne più da vicino, anche attraverso il diritto.
Il linguaggio è potere e, tramite questo, si definiscono i ruoli nella società. Tra i ruoli di grande prestigio c’è quello di giudicare, concetto tradizionalmente maschile, conservativo e spesso arcaico. Eutimio Ranelletti, presidente onorario della Corte di Cassazione, nel suo libello del 1957 intitolato “la donna giudice, ovverosia la grazia contro la giustizia” scriveva “la donna è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti”. Di contro, Alessandro Giuliani -filosofo del diritto- sosteneva che il giudice è custode della procedura ma, al tempo stesso, è anche custode dei valori della società: è utile, quindi, che anche le donne rivestano questo ruolo. Dello stesso parere è la partigiana antifascista Maria Federici quando scrive che “escludere le donne significherebbe non provare mai la loro attitudine”.
La maschilizzazione di termini e concetti è presente anche all’interno dei nostri codici, per tutti si ricordi la diligenza del “buon padre di famiglia” o la perizia “dell’uomo medio”. La donna, al contrario, è da sempre considerata soggetto debole e vulnerabile. 
Inoltre, rispetto agli stimoli sovranazionali, il legislatore italiano è stato piuttosto tardivo nel dare attuazione ad alcune Convenzioni come, per esempio, quella di Istanbul del 2011 e alla direttiva n. 29 del 2012. Ed invero, solo con legge n. 212 del 2015 ha ratificato la Convenzione di Lanzarote del Consiglio di Europa del 2007. 
E’ questo il contesto in cui l’ordinamento italiano recepisce il concetto di “violenza di genere”.


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