SOCIETÀ, SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA, SOCIETÀ A CONTROLLO PUBBLICO: DEFINIZIONI TRA DIRITTO COMUNE SOCIETARIO E TESTO UNICO DELLE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA


*Relazione esposta in occasione del convegno svoltosi in data 7 Febbraio 2020 presso la Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”- Università Politecnica delle Marche sul tema “LE SOCIETÀ MISTE PER L'ESERCIZIO DI ATTIVITÀ IMPRENDITORIALI NELLA PROSPETTIVA DELLE TUTELE GIURISDIZIONALI : PROFILI DI DIRITTO CIVILE, PENALE E CONTABILE A CONFRONTO”

SOMMARIO: 1. La società come strumento (di diritto privato) dell’agire pubblico; 2. La nozione di società nel testo unico; 3. Le società a controllo pubblico; 4. Il controllo societario di diritto comune; 5. Il controllo extracodicistico contenuto nell’art. 2 comma 1 lett. b del testo unico; 6. Sul controllo congiunto dei soci pubblici; 7. La forma del controllo congiunto; 8. La posizione dell’Anac: inversione dell’onere della prova; 9. Controllo societario e controllo analogo: due fattispecie ontologicamente differenti; 10. La definizione di società a partecipazione pubblica nel testo unico



1. La società come strumento (di diritto privato) dell’agire pubblico
Il ricorso sempre maggiore al modello organizzativo societario ai fini dell’agire pubblico ha determinato una stratificazione legislativa e alla coniazione del termine “società pubbliche”, locuzione tanto appropriata quanto non corretta , che, addirittura, è stato utilizzata dal legislatore (artt. 6, comma 19, d.l. 31 maggio 2010 n. 78, e 4, d.l. 6 luglio 2012 n. 95) con cui è indicata — in maniera atecnica — la società a partecipazione pubblica nelle sue diverse fisionomie .  Ed, invero, nel passato era stato affermato come la partecipazione ad una società di capitali da parte dello Stato o di una pubblica amministrazione potesse alterarne la struttura dando vita ad una società di diritto speciale. Addirittura la giurisprudenza amministrativa arrivava ad attribuire una connotazione pubblicistica a tali “tipologie” di società, sulla base del principio della neutralità della forma giuridica rispetto allo scopo perseguito . 
In realtà, di società speciale si sarebbe potuto parlare soltanto qualora una disposizione legislativa avesse introdotto deroghe al codice civile, prevedendo un fine pubblico incompatibile con la causa lucrativa stabilita dall’art. 2247 c.c. . Infatti, «la società partecipata da un socio pubblico, rimane un contratto tipico con comunione di scopo lucrativo, soggetto al diritto comune, che non può essere “storpiato o manipolato” per finalità abusive dirette a creare in vitro una sorta di azienda speciale, organica all’ente per alcuni fini e separata per altri, solo per ottenere una autonomia formale e la conseguente disapplicazione delle regole pubblicistiche» .
Invero, nel tempo, il confine tra l’agire pubblico e privato è diventato sempre più complesso rispetto al passato, in quanto la prassi governativa, da un lato, ha condotto «le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente privatistici» e, dall’altro, ha affidato «con maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici» . 
Economicità ed efficacia sono due principi cardine dell’attività amministrativa e costituiscono il corollario del principio di buona amministrazione sancito dall’art. 97 Cost. . Invero, l’azione amministrativa è spesso assai complessa e appesantita dalle leggi che caratterizzano l’attività pubblica. Dunque, il ricorso a modelli organizzativi di diritto comune (la società appunto) consente di esternalizzare talune attività ponendole al di fuori dell’apparato burocratico. Il ricorso allo strumento societario ha consentito ai soggetti pubblici di svolgere servizi di pubblico interesse ovvero pubblici essenziali formalmente non in maniera diretta ma mediante la società partecipata ovvero totalmente controllata, in maniera maggiormente snella ed efficiente . 
Tuttavia, il ricorso alle società a partecipazione ovvero a controllo pubblico non è una tendenza recente. Infatti, già la relazione al codice civile del 1942, nell’illustrare la disciplina delle società partecipate dallo Stato, affermava: «?in questi casi, è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni, per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici; la disciplina comune della società per azioni deve, pertanto, applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici, senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente (n. 998)».
Dal testo unico emerge chiaramente (e correttamente) come non sia pubblico il soggetto partecipato ma il soggetto che vi partecipa, ossia il socio. Pertanto, le regole che disciplinano l’operato del socio pubblico convivono con le regole proprie del diritto delle società. Ed, infatti, il legislatore è stato chiaro all’art. 1, 3° comma nel prevedere che «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e in leggi speciali» . In definitiva, si può affermare come le società a partecipazione pubblica (includendovi, dunque, anche le società a controllo pubblico e le società c.d. in house) sono soggette alla disciplina propria del diritto comune, salvo che norme speciali (quale il testo unico appunto) non prevedano espressamente una disciplina derogatoria.

2. La nozione di società nel testo unico
L’art. 2 comma 1, lett. l definisce la società come «gli organismi di cui ai titoli V e VI, capo I, del libro V del codice civile, anche aventi come oggetto sociale lo svolgimento di attività consortili, ai sensi dell’articolo 2615-ter del codice civile?». Nelle discipline in tema di “società pubbliche” spesso il riferimento generico all’espressione società ha generato dubbi interpretativi sull’applicazione soggettiva della disciplina, in particolare se fossero o meno applicabili anche a società consortili, consorzi e altri enti di diritto privato . 
Il testo unico sulle società a partecipazione pubblica, invece, nell’articolato, circoscrive in maniera precisa i tipi di società cui applicare le disposizioni che «hanno a oggetto la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta» (art. 1, comma 1); ciò con l’evidente obiettivo di eliminare ogni possibile questione interpretativa sul punto. In ragione della disposizione contenuta nell’art. 2 comma 1, lett. l, ai fini del testo unico, le società, rilevanti, sono quelle di persone, quelle di capitali nonché le società cooperative. 
Peraltro, l’art. 3 comma 1 prescrive che «?le amministrazioni pubbliche possono partecipare esclusivamente a società, anche consortili, costituite in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata, anche in forma cooperativa?».
Dunque, l’art. 3 comma 1 restringe i tipi di società di cui le pubbliche amministrazioni possono acquisire partecipazioni, eliminando la società di persone e la s.a.p.a., pur ricomprese nella definizione di società di cui all’art. 2 comma 1, lett. l. Invero, da un punto di vista applicativo, si deve rilevare come, nel “Piano Cottarelli”, dalla banca dati del MEF, fosse emerso che le amministrazioni pubbliche partecipavano solo in tre s.a.p.a. D’altro canto, l’articolato normativo così come conformato porta a ritenere che le amministrazioni pubbliche non possano possedere partecipazioni in società di persone e s.a.p.a., fermo restando che quelle possedute — al momento dell’entrata in vigore della normativa — possano continuare ad essere possedute dalle pubbliche amministrazioni . 
Pertanto, il legislatore non fornisce una definizione ulteriore e differente rispetto a quella prevista dal codice civile all’art. 2247 c.c. ma stabilisce le tipologie di società che possono essere costituite ovvero partecipate da amministrazioni pubbliche.

3. Le società a controllo pubblico
Il testo unico fornisce la nozione di “società a controllo pubblico”, come «le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b)» (art. 2, comma 1 lett. m). A tal fine — di rimando — si fa riferimento alla nozione di “controllo” stabilita dall’art. 2, comma 1 lett. b, ossia «la situazione descritta nell’art. 2359 del codice civile. Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutaria o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo». Pertanto, il legislatore ha esteso la nozione di controllo a situazioni che si collocano o si possono collocare oltre il dettato dell’art. 2359 c.c., dove, per legge, per statuto o in forza di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo .
Si può cogliere, quindi, come il legislatore abbia, da un lato, richiamato la fattispecie civilistica di controllo e, dall’altro, abbia fornito una ulteriore fattispecie sussumibile all’interno della nozione di controllo, quanto meno ai fini del testo unico. 
D’altro canto, le società, seppur a partecipazione o a controllo pubblico, non mutano la propria natura , essendo soggette, per quanto non previsto dal testo unico, alla disciplina di diritto comune, così come espressamente previsto dall’art. 1, comma 3 a tenore del quale «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e in leggi speciali» .

4. Il controllo societario di diritto comune
Il primo capoverso dell’art. 2 comma 1 lett. b del testo unico definisce il controllo come la situazione descritta nell’art. 2359 del codice civile. L’art 2359 c.c. prevede tre forme di controllo, la prima disciplinata, dal comma 1, n. 1, dà luogo al c.d. controllo interno di diritto, mentre le due successive, previste dal comma 1 n.ri 2 e 3, configurano il c.d. controllo di fatto, interno nel primo caso ed esterno nel secondo. 
Nella prima ipotesi, la società controllante dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria dei soci. La norma, pertanto, fa riferimento esclusivamente alle azioni munite di voto nell’assemblea ordinaria, senza che possano essere conteggiate azioni di risparmio ovvero azioni prive di voto. 
Stante la modulabilità del diritto di voto, ad avviso della dottrina, si deve tenere come riferimento le azioni che attribuiscono il diritto di voto per la nomina delle cariche sociali . Ed, invero, come affermato da taluna dottrina , il controllo c.d. diretto comporta una “influenza dominante” sull’assemblea ordinaria che si configura come potere di nomina della maggioranza degli amministratori, i quali, ai sensi dell’artt. 2380 bis c.c. hanno, in via esclusiva, la gestione della società. D’altronde, il potere di nominare la maggioranza degli amministratori costituisce solamente una presunzione iuris tantum del controllo. Infatti, se l’essenza del fenomeno del controllo risiede nella direzione e nella guida della società, è necessario valutare, nel caso concreto se la maggioranza degli amministratori possa effettivamente determinare la gestione della società .
Quando lo statuto, poi, dovesse prevedere dei limiti al numero massimo di voti esercitabili dal singolo socio, di tali limiti si dovrà tener conto nell’accertamento della sussistenza del controllo . Ancora devono essere conteggiate, ai fini della valutazione del controllo di diritto, le azioni a voto plurimo, nonché quelle di cui la società dispone del diritto di voto pur non essendone titolare . La disposizione, infatti, non richiama ad un aspetto di natura dominicale, piuttosto al potere di esercizio del diritto di voto che, dunque, potrebbe risultare scisso rispetto alla proprietà . 
Altra forma di controllo è quello c.d. di fatto interno che si ha quando la società controllante dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria. In tale ipotesi, la società controllante ha una partecipazione minoritaria che consente, comunque, di determinare le deliberazioni dell’assemblea ordinaria in ragione della polverizzazione del possesso azionario ovvero dell’assenteismo degli altri soci . D’altronde, la controllante potrebbe avere la maggioranza dei voti soltanto per alcune deliberazioni, ponendosi, dunque, il problema di individuare quelle in grado di indirizzare le sorti della società e la gestione dell’impresa sociale. Ad avviso della dottrina, anche solo la possibilità di nominare la maggioranza relativa degli amministratori consentirebbe di dettare le direttive nella gestione sociale . 
L’ultima forma di controllo prevista è quella disciplinata dal n. 3 dell’art. 2359, comma 1 c.c. a tenore del quale la società controllante ha un’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. In tale fattispecie, il controllo (rectius influenza dominante) non discende da una partecipazione nel capitale sociale ma è determinata da vincoli contrattuali. In particolare, tali rapporti contrattuali (che possono essere di qualunque tipo) pongono la società in una situazione di oggettiva dipendenza economica  tale da comprometterne esistenza e sopravvivenza  e da condizionarne le scelte gestionali e strategiche sulla complessiva attività di impresa .  In altri termini, il controllo non avviene mediante l’esercizio del voto in assemblea – come previsto nelle fattispecie di cui ai n.ri 1 e 2 – ma tramite vincoli negoziali che indirizzano la gestione della società.
Oggetto di dibattito è la possibilità che tali forme di controllo – segnatamente, quelle di cui all’art. 2359 comma 1 n.ri 2 e 3 c.c. - possano configurarsi nel caso di controllo congiunto. Secondo un orientamento, avallato anche dalla giurisprudenza , il controllo congiunto – inteso come il risultato del coordinamento dell’esercizio di voto riferito a singole partecipazioni, nessuna delle quali idonea a consentire la prevalenza di un socio rispetto agli altri - avrebbe rappresentato una ipotesi estranea alla fattispecie normata, in quanto l’art. 2359 c.c. disciplinerebbe esclusivamente il controllo monocratico  . 
Diversamente e più recentemente, la dottrina ha rilevato come simili posizioni di controllo si avrebbero anche quando più soci sono in grado di esercitare l’influenza dominante per effetto di un patto di sindacato di voto . La conclusione così rassegnata supera l’argomento letterale dell’art. 2359 c.c. e focalizza l’attenzione sull’art. 2341 bis c.c. che fa esplicito riferimento ai patti parasociali che al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società hanno per oggetto l'esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano . Le posizioni della dottrina sono, comunque, divergenti sulla “collocazione”  di tali fattispecie di controllo da sindacato: nell’ipotesi ex art. 2359 comma 1 n. 2  ovvero n. 3 .

5. Il controllo extracodicistico contenuto nell’art. 2 comma 1 lett. b del testo unico
Il testo unico nella definizione di controllo, oltre al richiamo espresso all’art. 2359 c.c., include anche il caso in cui, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo. Si tratta, pertanto, di una ipotesi di controllo ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 2359 c.c. 
Il controllo si estrinseca, dunque, nel potere di assumere le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale. 
 Invero, la locuzione è già presente nel nostro ordinamento, segnatamente i principi contabili internazionali prevedono che il controllo congiunto esiste «unicamente quando, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo» (IAS 31, punto 3, v. anche IAS 28, punto 2).
Ancora, le decisioni finanziarie e gestionali strategiche richiamano la formulazione dell’art. 2409-terdecies comma 1 lett. f-bis c.c. in cui si fa riferimento alle «operazioni strategiche e ai piani industriali e finanziari della società». Come evidenziato dalla dottrina, tali competenze (di spettanza del consiglio di sorveglianza ai sensi della disposizione codicistica appena richiamata) rientrano nell’ambito della c.d. alta amministrazione e comprendono quelle scelte che hanno un impatto rilevante sulla redditività della società o sulla sua esposizione al rischio . 
Il secondo capoverso dell’art. 2 comma 1 lett. b del testo unico, dunque, disciplinerebbe un’ipotesi di un’influenza dominante al di fuori dell’ambito assembleare, rientrando, quindi, nell’ambito dell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2359 comma 1 c.c., seppur in senso lato, potendo mancare la fonte contrattuale (salva l’ipotesi del patto parasociale) quale causa del controllo, che potrebbe, invece, trovarsi nella legge ovvero nello statuto della società.

6. Sul controllo congiunto dei soci pubblici
Nodo interpretativo rilevante è se il controllo di cui all’art. 2 comma 1 lett. b del testo unico debba essere esercitato da un unico socio pubblico ovvero sia possibile in presenza di una pluralità di soci pubblici. 
Ad avviso della dottrina, il testo unico, in particolare il combinato disposto delle lettere b ed m dell’art. 2, avrebbe riconosciuto in maniera definitiva il controllo congiunto confermandone l’ammissibilità ipotizzata solo in via interpretativa . In altri termini, il legislatore delle società a partecipazione pubblica avrebbe positivizzato quanto affermato dalla dottrina circa la possibilità che il controllo di cui all’art. 2359 c.c. possa derivare anche da un controllo congiunto di più soggetti e non soltanto da un esercizio monocratico. Ed, invero, la giurisprudenza contabile , ha ritenuto che mediante il combinato disposto dell’art. 2, comma 1  lett. b ed m, nel definire le società a controllo pubblico, il legislatore sembra accentuare, rispetto alla nozione contenuta nell’art. 2359 c.c., lo spostamento della prospettiva dal socio controllante alla società controllata. Infatti, mentre l’art. 2359 c.c. considera società controllata quella in cui un’altra società dispone dei voti o dei poteri di controllo, nel teso unico (art. 2 lett. b e m) sono qualificate come società a controllo pubblico quelle in cui una o più amministrazioni dispongono dei voti o dei poteri di controllo. 
Nello stesso senso si è posto il Ministero dell’Economia e delle Finanze che, con un proprio orientamento del 15 febbraio 2018, ha affermato che le ipotesi dell’art. 2359 c.c. si riferiscono anche a più Pubbliche Amministrazioni, le quali esercitano tale controllo congiuntamente e mediante comportamenti concludenti, pure a prescindere dall’esistenza di un coordinamento formalizzato. In altri termini, secondo l’orientamento del MEF, sia l’interpretazione letterale sia la ratio sottesa alla riforma nonché una interpretazione logico-sistematica delle disposizioni citate, inducono a ritenere che la “Pubblica Amministrazione”, quale ente che esercita il controllo, sia stata intesa dal legislatore del TUSP come soggetto unitario, a prescindere dal fatto che, nelle singole fattispecie, il controllo di cui all’art. 2359, comma 1, numeri 1), 2) e 3), faccia capo ad una singola Amministrazione o a più Amministrazioni cumulativamente. L’orientamento condivide gli approdi della giurisprudenza amministrativa pre-emanazione del testo unico che ha calato, all’interno della fattispecie civilistica del controllo societario, la nozione pubblicistica di controllo congiunto con il conseguente accoglimento del concetto di unitarietà dell’ente pubblico socio anche quando i soci enti pubblici sono molteplici  . 
Nello stesso solco si è posta parte della giurisprudenza della Corte dei Conti (da ultima sez. riun. contr. 20 giugno 2019, n. 11 , la quale ha più volte affermato come, in virtù del combinato disposto delle lett. b ed m dell’art. 2 del testo unico, siano società a controllo pubblico quelle in cui due o più amministrazioni pubbliche congiuntamente dispongano dei voti ovvero dei poteri indicati nel codice civile; ciò in quanto la pubblica amministrazione è individuata come soggetto unitario .
Di contrario avviso è la Corte dei Conti, sez. riun. giur., 22 maggio 2019, n. 16 , secondo la quale non è possibile configurare il c.d. “controllo pubblico congiunto” ipotizzando una pluralità di enti controllanti. Ciò poiché «nel TUSP non viene mai utilizzata l’espressione “controllo congiunto” mentre è previsto il “controllo analogo congiunto”» e, dunque, osserva il consesso, «laddove il legislatore avesse voluto intendere analoga modalità di azione fra pubbliche amministrazioni avrebbe usato identica terminologia». Ancora, secondo la Corte, nessuna disposizione normativa prevede che gli enti detentori di partecipazioni debbano provvedere alla gestione delle stesse in modo associato e congiunto: «l’interesse pubblico che le stesse sono tenute a perseguire, infatti, non è necessariamente compromesso dall’adozione di differenti scelte gestionali o strategiche che ben possono far capo a ciascun socio pubblico in relazione agli interessi locali di cui sono esponenziali» . Nella medesima pronuncia, la Corte ritiene che in presenza di una pluralità di soci pubblici, il controllo, ai sensi dell’art. 2 comma 1 lett. b, sarà ravvisabile (salva ovviamente l’ipotesi in cui un singolo socio pubblico abbia il controllo ex art. 2359 c.c.) soltanto quando in virtù di norme di legge o statutarie o di patti parasociali le decisioni strategiche per la vita sociale richiedano il consenso unanime delle amministrazioni pubbliche che esercitano il controllo. 

7. La forma del controllo congiunto
Analoga querelle riguarda la forma che gli accordi dovrebbero avere ai fini del controllo congiunto.
Il Ministero nel su citato orientamento (15 febbraio 2018), nonché taluna giurisprudenza contabile ha affermato che il controllo da parte di più enti pubblici possa realizzarsi per fatti concludenti .
Di diverso avviso dottrina e giurisprudenza che ritengono, invece, necessaria la forma scritta. Secondo, la Corte dei Conti, sez. riun. giur., 22 maggio 2019, n. 16   la situazione di controllo pubblico non può essere presunta in presenza di “comportamenti univoci o concludenti” ma deve risultare esclusivamente da norme di legge, statutarie e da patti parasociali, dunque da atti aventi forma scritta. Dello stesso avviso la giurisprudenza amministrativa  che ha ritenuto necessario sottoporre a verifica documentale l’accordo da cui risulti la possibilità di influenzare l’attività della partecipata attraverso un controllo congiunto. Ed, invero, come notato recentemente , nonostante le società a controllo pubblico siano società di diritto comune, i soci che la partecipano sono soggetti a principi differenti rispetto ai privati. Per giurisprudenza costante, i contratti della pubblica amministrazione richiedono la forma scritta “quale espressione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica amministrazione e garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, visto che solo tale forma permette di identificare con precisione l’obbligazione assunta e l’effettivo contenuto negoziale dell’atto” . Ad osservazioni in punto di diritto assorbenti, si aggiunga che la forma scritta risulta essere necessaria al fine di verificare – da parte della giustizia contabile – la sussistenza o meno del controllo, con le conseguenze derivate in termini  di applicazione della normativa del testo unico .

8. La posizione dell’Anac: inversione dell’onere della prova
L’Autorità nazionale anticorruzione, con la delibera n. 859 del 25 settembre 2019, ha fornito la propria interpretazione di società a controllo pubblico ai fini dello svolgimento della propria attività di vigilanza in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza di cui alla l. n. 190/2012 e al d.lgs. n. 33/2013. Nella delibera, l’Autorità ripercorre gli orientamenti emersi rilevando anche i contrasti (non ultimo quella nelle sezioni riunite della Corte dei conti, tra la sezione controllo e quella giurisdizione ). In ragione dell’incertezza interpretativa, tanto che l’Autorità dichiara di auspicare l’intervento chiarificatore del legislatore, l’Anac rileva “la necessità di valutare nel concreto quando sia configurabile il controllo pubblico congiunto, al fine di capire se una società debba o meno adottare misure di prevenzione della corruzione e trasparenza. In disparte la sicura configurabilità del controllo pubblico, anche congiunto, nelle società in house, su cui l’Autorità si è espressa nella delibera n. 1134/2017”. Ai propri fini, l’Anac ritiene che la partecipazione pubblica maggioritaria al capitale sociale quale indice presuntivo della situazione di controllo pubblico. Si tratta, in ogni caso, di una presunzione suscettibile di prova contraria in quanto, sempre nella propria delibera, l’Anac afferma che la società interessata che intenda rappresentare la non configurabilità del controllo pubblico è tenuta a dimostrare l’assenza del coordinamento formalizzato tra i soci pubblici, desumibile da norme di legge, statutarie o da patti parasociali, ovvero l’influenza dominante del socio privato, ove presente nella compagine societaria.
Invero, l’Anac, già nella deliberazione n. 1134/2017, nell’aggiornare le Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati da pubbliche amministrazioni, precisava che “rientrano fra le società a controllo pubblico anche quelle a controllo congiunto, ossia le società in cui il controllo ai sensi dell’art. 2359 del codice civile è esercitato da una pluralità di amministrazioni”.
È, questa, una nozione limitata ai criteri che l’Anac intende seguire internamente ai fini dello svolgimento delle proprie attività di vigilanza relative alla l. n. 190/2012 e al d.lgs. n. 33/2013 .

9. Controllo societario e controllo analogo: due fattispecie ontologicamente differenti
Il controllo societario – sino ad ora esposto – è fenomeno differente rispetto al controllo analogo, nonostante possano essere confusi (o fusi). Nell’affrontare il controllo contrattuale di cui all’ipotesi n. 3 dell’art. 2359 comma 1 c.c., taluna dottrina ha evidenziato come spesso la sopravvivenza della società a partecipazione pubblica sia legata al rapporto contrattuale intercorrente con la pubblica amministrazione . Pertanto, una società anche se non soggetta ad un controllo interno, si troverebbe a subire una influenza rilevante da parte dell’amministrazione pubblica che potrebbe trasformarsi, addirittura, in controllo analogo. Ed, invero, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che «?il requisito del controllo analogo non sottende una logica “dominicale”, rivelando piuttosto una dimensione “funzionale”?» . Infatti, sempre secondo la giurisprudenza amministrativa, il requisito del “controllo analogo” postula un rapporto che lega gli organi societari della società affidataria con l’ente pubblico affidante, in modo che quest’ultimo sia in grado, con strumenti pubblicistici o con mezzi societari di derivazione privatistica, di indirizzare “tutta” l’attività sociale attraverso gli strumenti previsti dall’ordinamento; risulta, quindi, indispensabile che le decisioni più importanti siano sempre sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante o, in caso di in house frazionato, della totalità degli enti pubblici soci . Il testo unico all’art. 2 comma 1 lett. c definisce il controllo analogo come «la situazione in cui l’amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione partecipante». 
Del resto la distinzione tra i due fenomeni era già stata individuata in maniera precisa dalle sezioni unite della Cassazione . Infatti, il controllo analogo comporta che l’ente esercita un potere di comando direttamente sulla gestione dell’ente con modalità ed intensità non riconducibili ai diritti e alle facoltà normalmente spettanti al socio in base al codice civile, sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale. In altri termini, nel caso del controllo analogo, il socio pubblico acquisisce competenze di carattere gestorio, prerogative, nelle società di diritto comune, degli amministratori ai sensi, nelle S.p.A., degli artt. 2380 bis e 2409 novies c.c. Ed, invero, l’art. 16 del testo unico prevede, ai fini della realizzazione dell’assetto organizzativo necessario a consentire il controllo analogo, gli statuti delle società per azioni possono contenere clausole in deroga delle disposizioni dell’articolo 2380-bis e dell’articolo 2409-novies del codice civile . In definitiva, come evidenziato dalla dottrina, gli artt. 2380-bis e dell’articolo 2409-novies individuano «un’area a sostanziale contenuto indubbiamente amministrativo […] di esclusiva competenza dell’organo di vertice, i.e. la gestione dell’impresa sociale» . In tale ambito, se interviene direttamente la pubblica amministrazione si può parlare di controllo analogo. Diversamente, il controllo societario per quanto ampio ed esteso oltre i confini dell’assemblea ordinaria, tanto da giungere a investire decisioni a carattere strategico, non giunge alla gestione dell’impresa sociale, prerogativa esclusiva, nelle società di diritto comune, degli amministratori .

10. La definizione di società a partecipazione pubblica nel testo unico 
L’art. 2, comma 1 lett. n del testo unico definisce le società a partecipazione pubblica come «?le società a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico?». Pertanto, sono società a partecipazione pubblica, ai fini del testo unico, tutte quelle società in cui la pubblica amministrazione direttamente possegga delle partecipazioni sociali ovvero strumenti finanziari che attribuiscano diritti amministrativi (a tal proposito si rinvia al commento dell’art. 2 comma 1 lett. f e g) ovvero ancora siano partecipate per il tramite di società a loro volta controllate da un ente pubblico. Pertanto, sembra doversi escludere — ai fini del testo unico — che una società sia a partecipazione pubblica quando una società — partecipata ma non controllata da un ente pubblico — detenga delle partecipazioni ovvero degli strumenti finanziari partecipativi nella società. Peraltro, ai fini del testo unico, è rilevante la mera partecipazione — diretta ovvero indiretta (nei termini sopra esposti) — senza che assuma alcuna rilevanza l’entità della stessa, ossia se si tratti di minoranza “strategica” o meno . 
È evidente, allora, che la definizione di società “a partecipazione pubblica” sia ampia e comprenda sia le società a controllo pubblico sia le società in house.
Sempre dall’analisi della disposizione emerge come la locuzione “società a partecipazione pubblica” ricomprenda tutte le tipologie di società cui le amministrazioni pubbliche possono partecipare, ossia, ai sensi dell’art. 3 comma 1, società di capitali, cooperative e consortili, con esclusione, quindi, delle società di persone nonché delle s.a.p.a. (pur ricomprese nella definizione di società di cui all’art. 2 comma 1, lett. l), fermo restando che le partecipazioni possedute — al momento dell’entrata in vigore della normativa — possano continuare ad essere possedute dalle pubbliche amministrazioni. Il termine “partecipazione”, inteso come bene, ricomprende sia le quote, sia le azioni, rappresentando queste una specificazione del genere “quota di partecipazione” . 

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