LA TUTELA CAUTELARE NEL PROCESSO TRIBUTARIO


Il d.lgs. n. 156 del 2015 ha rivoluzionato la precedente disciplina, consentendo l’effettivo riconoscimento della sospensione cautelare anche nei giudizi di appello e ricorso per cassazione, tanto per il contribuente, tanto per la pars publica.
Risulta impossibile comprendere la portata e il significato della norma in esame senza conoscere i precedenti dai quali è scaturita.
Prima della modifica del d.lgs. n. 546 del 1992, l’istituto della tutela cautelare non trovava uno spazio legittimo per i giudizi di impugnazione all’interno del processo tributario, dando luogo a rilevanti discussioni dottrinali e giurisprudenziali sul tema.

Il d.lgs. n. 156 del 2015 ha rivoluzionato la precedente disciplina, consentendo l’effettivo riconoscimento della sospensione cautelare anche nei giudizi di appello e ricorso per cassazione, tanto per il contribuente, tanto per la pars publica.


Risulta impossibile comprendere la portata e il significato della norma in esame senza conoscere i precedenti dai quali è scaturita.


Prima della modifica del d.lgs. n. 546 del 1992, l’istituto della tutela cautelare non trovava uno spazio legittimo per i giudizi di impugnazione all’interno del processo tributario, dando luogo a rilevanti discussioni dottrinali e giurisprudenziali sul tema.


Il punto di partenza è sicuramente il dato normativo che, dopo lunghe battaglie, riconobbe l’accesso della tutela cautelare nel processo tributario.


L’art. 30, primo comma, della l. 30 dicembre 1991, n. 413, nel conferire la delega al Governo di emanare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni per la revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario, alla lettera h), quale principio direttivo, aveva indicato la “previsione di un procedimento incidentale ai fini della sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato disposta mediante provvedimento motivato, con efficacia temporale limitata a non oltre la decisione di primo grado e con obbligo di fissazione dell’udienza entro novanta giorni”. La littera legis non era facile da superare; il Legislatore aveva dato un limite temporale chiarissimo, giustificato forse da un atteggiamento di prudenza a fronte dell’apertura per la prima volta in sede legislativa ad una forma di tutela cautelare nel processo tributario[1]. Non vi era, quindi, alcuna norma che prevedesse strumenti di tutela cautelare esperibili per i giudizi di impugnazione delle sentenze tributarie, nè la legge delega disponeva nulla al riguardo. Un’estensione della tutela cautelare oltre il primo grado di giudizio trovava un ostacolo insormontabile in quella che va considerata la già evidenziata voluntas legis in proposito.


In materia si era espressa In materia si era espressa la Circolare del 23 aprile 1996, n. 98/E del Ministero delle Finanze, disponendo che “tra gli istituti previsti nell’ambito del giudizio di primo grado che risultano non applicabili al giudizio di appello vi è, ad esempio, il procedimento incidentale ai fini della sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, ex art. 47, posto che l’efficacia del procedimento è espressamente limitata temporalmente a non oltre la sentenza di primo grado…”.


A fronte di tali dati normativi, era opinione diffusa da parte di dottrina[2] e giurisprudenza[3], nel negare l’ammissibilità nei giudizi di impugnazione dei rimedi inibitori di natura cautelare[4]. Anche la Consulta, nonostante da un punto di vista generale avesse, più volte, affermato che la disponibilità di misure cautelari costituisse componente essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 della Costituzione[5], quando poi è stata chiamata a pronunciarsi in merito al processo tributario, ha mostrato una posizione decisamente restrittiva sulle possibilità di tutela cautelare oltre il primo grado di giudizio, affermando con alcune pronunce[6], che la tutela cautelare “deve ritenersi costituzionalmente imposta solo fino al momento in cui non intervenga in giudizio nel processo una pronuncia di merito che accolga – con efficacia esecutiva – la domanda … ovvero la respinga …, rimanendo, pertanto, rimessa alla discrezionalità del legislatore la previsione di mezzi di tutela cautelare nelle fasi di giudizio successive a siffatta pronuncia”. In sostanza, la giurisprudenza costituzionale ha rimesso alla mera discrezionalità del legislatore la previsione della tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo e, nel comparare il processo tributario a quello civile, ha sottolineato che non esiste un principio costituzionale di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo, pur non dovendo sussistere irragionevoli differenze tra le discipline de quibus.


Tali dati normativi e giurisprudenziali non trovavano condivisione da parte dalla generale maggioranza della dottrina che avvertiva l’esigenza di dare applicazione alla ratio della tutela cautelare, ovvero quella di preservare una posizione processuale, di chi ritenga di avere ragione, dal rischio di ritardo per il riconoscimento della medesima ragione. Soltanto l’estensione dell’istituto in esame a tutta la durata del processo tributario garantirebbe il diritto di azione e di difesa del contribuente, il quale non può dirsi pienamente tutelato rimettendo la questione alla sola discrezionalità del legislatore[7].


Anche per quanto riguarda i presupposti per l’applicabilità della sospensione cautelare, potrebbero, infatti, non sussistere nel primo grado di giudizio e manifestarsi per la prima volta in appello; sicuramente con riguardo al periculum in mora nel caso, più che possibile, in cui dovesse verificarsi un mutamento delle condizioni economico-patrimoniali del contribuente dopo la conclusione del primo grado, ma anche il fumus boni iuris potrebbe cambiare, ad esempio, a seguito di un intervento della Corte Costituzionale o di un mutamento giurisprudenziale, si pensi ad una sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma su cui è fondato l’atto impositivo, che diviene così illegittimo.


Per tali ragioni, nel tempo, i vari autori hanno cercato di risolvere uno dei maggiori problemi concernenti il processo tributario, seguendo orientamenti diversi a seconda che al processo fosse attribuita la natura di impugnazione merito o di impugnazione-annullamento. Entrambe le posizioni espresse, nonostante traggono le proprie idee da differenti assunti, condividono comunque l’idea di fondo per la quale il contribuente non può dirsi pienamente garantito fin quanto non sarà riconosciuto un potere inibitorio cautelare esercitabile anche nei gradi di giudizio successivi al primo[8].


La teoria dell’impugnazione merito.


Secondo i dichiarativisti, sarebbero applicabili nel processo tributario le norme del codice di rito sulla sospensione dell’efficacia della sentenza, norme però, la cui applicazione è esclusa espressamente dall’art. 49 d.lgs. 546 del 1992.


Il punto del problema verte proprio sull’interpretazione da dare all’art. 49, in modo da svolgere un’analisi sulla compatibilità o meno del sistema di sospensione cautelare previsto nel rito civile con le norme che disciplinano il processo tributario.


L’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce che “Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”.


Il primo comma dell’art. 337 c.p.c., la cui applicazione è espressamente “esclusa”, prevede che “L’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa, salve le disposizioni degli artt. 283, 373, 401 e 407”. Gli articoli richiamati dall’art 337, autorizzano il giudice civile a disporre la sospensione della sentenza impugnata nei diversi gradi di giudizio, al verificarsi di determinati presupposti.


Tradizionalmente l’Amministrazione finanziaria[9], giurisprudenza di legittimità[10] e costituzionale[11], adottando un’interpretazione legata al dato letterale, avevano escluso tassativamente l’applicazione dell’art. 337 c.p.c. dal processo tributario, precludendo quindi anche l’utilizzo delle norme in esso richiamate. I sostenitori della tesi dell’impugnazione-merito, al fine di prevedere una tutela cautelare anche nei giudizi di impugnazione, adottano invece una posizione meno legata al dato letterale della norma e più condivisibile dal punto di vista sistematico, per la quale il semplice richiamo degli artt. 283, 373 e 401 c.p.c., nel testo dell’art. 337 c.p.c., non sarebbe sufficiente a precludere la loro efficacia del processo tributario[12].


Questo perché, secondo tale interpretazione, l’esclusione nel processo tributario, ex art. 49, della disposizione dell’art. 337, sarebbe limitata alla prima parte del 1° comma “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa”, che rappresenterebbe la “regola”, senza estendersi necessariamente alla seconda parte “salve le disposizioni degli articoli 283, 373, 401 c.p.c.”, che rappresenterebbe viceversa l’“eccezione” all’anzidetta regola. Quindi, l’inapplicabilità della regola contenuta nell’art. 337 c.p.c., non comporta necessariamente l’inapplicabilità al processo tributario anche dell’eccezione, e quindi, non esclude di per sé la sospendibilità ope iudicis dell’esecuzione della sentenza impugnata.


Tutto ciò trova una sua giustificazione nel fatto che l’art. 68 del d.lgs. 546 del 1992 regolamenta, in maniera specifica ed autonoma, l’esecutività delle sentenze tributarie emesse nei diversi gradi di giudizio, non ammettendo altro regime alternativo o complementare circa i criteri di esecutività delle sentenza. L’esclusione del precetto dell’art. 337 c.p.c. operata dall’art. 49, non trova quindi connessione con la negazione della sospendibilità delle sentenze.


Da tale possibile interpretazione conseguirebbe che il comma 1 dell’art 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 non costituisce ostacolo normativo ad applicare al processo tributario l’inibitoria cautelare di cui agli articoli del c.p.c..


Questa interpretazione è stata considerata irrilevante da quella parte della dottrina[13] che riconosce al processo tributario natura di impugnazione - annullamento, poiché la sospensione delle sentenze delle Commissioni Tributarie sottoposte ad impugnazione presupporrebbe la loro natura esecutoria. Le sentenze del giudice tributario invece, secondo tale dottrina, non sarebbero immediatamente produttive di efficacia propria, ma avrebbero esclusivamente la funzione di far cessare la sospensione dell’esecutività degli atti impositivi impugnati. Da ciò consegue che gli artt. 283, 373, 401 del c.p.c. non sarebbero utilizzabili, nel giudizio tributario, nei gradi successivi al primo, poiché queste norme non attengono alla sospensione dell’esecuzione del provvedimento impositivo.


La teoria dell’impugnazione – annullamento.


Oggetto del procedimento di sospensione non potrebbe mai essere la sentenza che ha respinto l’impugnazione, bensì semmai il provvedimento impositivo la cui impugnazione è stata rigettata in primo grado[14]”.


È proprio da questa affermazione della Consulta, che la citata opposta dottrina fonda la propria tesi per l’applicabilità della tutela cautelare oltre al primo grado giudizio, che avrebbe in ogni caso ad oggetto l’atto impositivo impugnato e non la sentenza.


Secondo tale interpretazione, il giudice dell’impugnazione potrebbe esercitare un potere cautelare utilizzando l’art. 47, d.lgs. n. 546 del 1992, tramite il richiamo generale effettuato dall’art. 61, alle norme dettate per il procedimento di primo grado.


Stando a questi autori, tali dati normativi non sarebbero incompatibili con una trasposizione della norma nell’ambito del giudizio di appello.


Non si può non evidenziare come una qualche forzatura, circa l’applicabilità dell’art. 47 alla fase impugnatoria, deve comunque sia certamente operare: al primo comma di tale articolo, si parla espressamente di “commissione tributaria provinciale competente”, quale giudice a cui proporre l’istanza di sospensione cautelare dell’esecuzione dell’atto impugnato, stabilendosi, nel settimo comma, che “gli effetti della sentenza cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado”.


Per superare il fermo dato letterale della norma, si sarebbe dovuto intendere il riferimento alla “commissione provinciale competente”, di cui al comma 1, quale “giudice adito”, latu sensu inteso, ravvisando nell’espressione “sentenza di primo grado” del comma 7, l’equivalente di “sentenza conclusiva del grado di giudizio”, tout court[15].


Tale impostazione viene giustificata in un’ottica del processo tributario di impronta costitutivistica secondo cui la sentenza che respinge il ricorso non si sostituisce all’atto impugnato, ma reca l’accertamento dell’insussistenza del diritto all’annullamento dell’atto di imposizione. Ne consegue che, dopo tale accertamento, viene sempre portato ad esecuzione il provvedimento amministrativo impugnato e quindi, per quanto qui di rilevanza, non c’è ragione perché i poteri del giudice di secondo grado possono risultare inferiori rispetto a quelli esercitabili in primo grado[16].


La critica sollevata per il rifiuto di tale tesi riguarda essenzialmente la collocazione della disciplina della tutela cautelare di cui all’art. 47, contenuta nel Capo II del Titolo I, diversa da quella relativa al procedimento di primo grado il quale è disciplinato dal Capo I del Titolo I, con la conclusione che il rinvio effettuato dall’art. 61 si riferisce solo ed esclusivamente a quest’ultimo.


Ma anche volendo condividere tale interpretazione normativa, rimaneva comunque il problema dell’originario limite temporale, difficile da superare, imposto dall’art. 30, comma 1, lett. h), della legge delega n. 413 del 1991, che fissando le direttive per l’introduzione, per la prima volta nel processo tributario, dell’istituto della tutela cautelare, fa emergere chiaramente la volontà legislativa di limitare l’ambito applicativo dell’art. 47 al solo primo grado, parlando specificatamente di un provvedimento di sospensione che avrebbe dovuto avere, in ogni caso, “efficacia temporale limitata a non oltre la decisione di primo grado”.


La considerazione che se ne trae è che la seguente interpretazione, pur autorevolmente sostenuta, risulta invero difficilmente conciliabile con la natura del processo tributario di impugnazione-merito riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.


Come autorevole dottrina ha precisato[17], l’attività del giudice, a seguito dell’effetto devolutivo nato dall’impugnazione dell’atto o della sentenza nei gradi successivi al primo, investe infatti solitamente il profilo sostanziale attinente al merito del rapporto, fino all’emanazione della sentenza, nella quale la volontà dell’ordinamento è attuata dal giudice, in sostituzione dell’accertamento operato dall’Amministrazione finanziaria nell’atto impugnato.


Estensione della tutela cautelare nei gradi successivi al primo: il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156.


Il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156195, c.d. Decreto “interpelli e contenzioso tributario”, in linea con l’obiettivo programmatico della legge di delega n. 23 del 2014, il cui art. 10, n. 9), prevedeva la “uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario”, ha esteso il rimedio della sospensione cautelare a partire dal 1° gennaio 2016 a tutte le fasi del giudizio, colmando il vuoto legislativo al quale fino ad allora aveva cercato di ovviare la giurisprudenza.


Con tale decreto si è avuta anche l’abrogazione dall’art. 49, d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte che escludeva l’applicazione dell’art. 337 c.p.c., causa di tutta la problematica ante riforma, con la conseguenza che potrebbero ora applicarsi al processo tributario le disposizioni del codice di procedura civile, ed in specie gli artt. 283, 373 e 401; il legislatore, però, ha introdotto una regolamentazione ad hoc per la sospensiva nei giudizi di impugnazione che, in quanto speciale, deroga alla disciplina civilistica.


Nonostante la Direttiva estremamente chiara (fornita dalla legge delega), che postulava la formazione di una disciplina unitaria (l’uniformazione e generalizzazione della tutela cautelare nel processo tributario), il legislatore delegato, nel d.lgs. n. 156/2015, ha dettato regole variamente “sparpagliate”.


Gli emendamenti alla disciplina del contenzioso sono contenuti nell’art. 9, d.lgs. n. 156/2015, il quale, all’interno del Capo III, relativo alle impugnazioni, ha modificato, alla Sezione II, l’art. 52 attraverso l’introduzione di 5 nuovi commi (dal 2 al 6), estendendo così la tutela cautelare in appello, modificando, tra l’altro, la rubrica stessa dell’articolo, che è passata da “giudice competente e legittimazione ad appellare” a “giudice competente e provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello”.


Il legislatore ha, altresì, introdotto, alla Sezione III, l’art. 62 bis rubricandolo “provvedimenti sull’esecuzione provvisoria della sentenza impugnata per cassazione”, che disciplina la sospensione cautelare dopo le sentenze di appello impugnate innanzi la Corte di Cassazione; ha ammesso, alla sezione IV, la proposizione delle istanze cautelari nel giudizio di revocazione, “in quanto compatibile” aggiungendo il comma 3-bis all’art. 65 del d.lgs 546 del 1992.


Fatta eccezione per le non rilevanti modifiche, quali l’immediata comunicazione alle parti del dispositivo, la garanzia alla quale la sospensione può essere condizionata e gli interessi previsti al comma 8-bis durante il periodo di sospensione, l’art. 47 del d.lgs. 546 del 1992 disciplinante la sospensione cautelare dell’atto in primo grado, è rimasto in linea di massima invariato.


L’art. 52, nella prima parte del secondo comma, prevede che “l’appellante può chiedere alla commissione regionale di sospendere in tutto o in parte l’esecutività della sentenza impugnata….”.


È legittimato a chiedere che la sentenza sia sospesa il titolare del diritto leso dalla condanna al pagamento dell’imposta o alla sua restituzione, oppure il soggetto attivo del rapporto di cui la sentenza abbia disconosciuto l’esistenza. Il legislatore attribuisce, quindi, la possibilità di chiedere una sospensiva cautelare, sulla base dell’esecutività della sentenza impugnata, all’“appellante”, intendendo in questo modo, oltre al contribuente, anche l’Amministrazione finanziaria, nel caso di sentenze favorevoli al contribuente, nei cui riguardi (della sentenza), sussiste l’interesse ad ottenere una protezione cautelare da parte dell’Ufficio, in modo da prevenire, in quanto titoli esecutivi, l’oggi consentito susseguente accesso al giudizio di ottemperanza da parte del contribuente[18].


L’intervento di riforma tuttavia non è dei più felici sul piano del dettato normativo[19]. Ad un primo approccio alla nuova normativa, si percepisce come il legislatore, nel disciplinare la materia, abbia inteso rifarsi agli altri due tipi di processo, civile e amministrativo. Visto e considerato che, come in precedenza affermato, il modello processuale tributario possiede caratteristiche proprie tali da non rendere possibileuna semplice equiparazione con gli altri due modelli processuali[20], più che all’uno o all’altro processo, il legislatore avrebbe dovuto maggiormente guardare alla specialità della giurisdizione tributaria, in modo da costruire un sistema inibitorio ad hoc, adatto per il solo processo tributario.


Come acutamente osservato da autorevole dottrina[21], per attuare la volontà del legislatore delegante sarebbe bastato inserire all’art. 61 del d.lgs. n. 546 del 1992, dopo le parole “nel procedimento d’appello si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado”, l’inciso “ivi compreso l’art. 47”, prima dell’ulteriore riserva “se non siano incompatibili con le disposizioni della presente Sezione”. Mentre, per quanto riguarda la sospensione cautelare in pendenza del giudizio di cassazione sarebbe stato sufficiente aggiungere all’art. 62, un terzo comma, “in pendenza del ricorso per cassazione, attestata dalla cancelleria della Corte, l’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato è proposta davanti al giudice tributario che ha emesso la sentenza impugnata”. In tal modo, secondo l’autore, si sarebbe realizzata in tutta semplicità la volontà del legislatore delegante.


Potere cautelare del giudice d’appello: analisi art. 52, comma 2, d.lgs. n. 546/1992.


L’oggetto della sospensiva


Il legislatore imposta in modo non del tutto nitido la questione dei rapporti tra sentenza e atto impugnato, condizionato forse più dalle critiche pervenute in dottrina, a seconda che la norma si fosse conformata a quella natura del processo tributario che può essere ricondotta alla teoria dell’impugnazione-merito, come ormai fermamente assunto dalla giurisprudenza costituzionale, a dispetto di quella parte, seppur autorevole, della dottrina riconducibile all’orientamento costitutivista dell’impugnazione annullamento.


La tecnica legislativa, forse più per non “scontentare” nessuno, è stata quella di prevedere la possibile sospensione della sentenza impugnata, da parte, genericamente, di chi propone appello e, “comunque”, la sospensione dell’atto, da parte del contribuente.


Il comma 2, dell’art. 52 d.lgs. n. 546 del 1992, infatti è composto di due periodi, in cui si intrecciano anche i presupposti della tutela inibitoria. Il primo periodo, “l'appellante può chiedere alla commissione regionale di sospendere in tutto o in parte l'esecutività della sentenza impugnata, se sussistono gravi e fondati motivi”, fissa la regola generale ed attribuisce espressamente al giudice di appello il potere di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado, in tutto o in parte, puntualizzando che potrà essere esercitato su sollecitazione della parte appellante, sia essa parte pubblica, sia essa la parte privata.


Il secondo periodo in commento dispone specificatamente per il caso in cui la parte soccombente all’esito del giudizio di primo grado sia il contribuente, individuando come oggetto della sospensione cautelare non la sentenza, ma l’atto originario; “il contribuente può comunque chiedere la sospensione dell'esecuzione dell'atto se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile”.


Come non è mancato già di far notare, il legislatore non è stato molto chiaro nella dizione letterale della riforma; il fulcro del discorso, ricade sempre sulla solita questione: dopo il giudizio di merito di primo grado, nei giudizi di impugnazione, si richiede la sospensione dell’atto o della sentenza? La relazione illustrativa al decreto nulla prevede per far chiarezza in tal senso. Vedremo adesso come la dottrina e la prassi dell’Agenzia delle Entrate hanno interpretato i nuovi articoli e quale, quindi, può essere la chiave di lettura per l’applicazione dell’istituto.


Sicuramente dubbi non sussistono per l’Amministrazione finanziaria, cioè nel caso di accoglimento del ricorso del contribuente, con conseguente sentenza di condanna a suo carico, la Commissione tributaria regionale potrà inibire, ad istanza della stessa Amministrazione finanziaria appellante, l’esecutorietà della sentenza pronunciata da parte della Commissione tributaria provinciale. L’unica precisazione qui da effettuare, riguarda la natura esecutoria della sentenza, in quanto nel processo tributario contengono comandi suscettibili di diretta esecuzione solo le sentenze che contengano una “condanna”, come la condanna alle spese, oppure al rimborso (sia nel caso di controversie di rimborso, sia nel caso di condanna alla restituzione delle somme effettivamente riscosse in forza di un atto poi annullato).


Punto più controverso è invece quello che riguarda il contribuente, nel momento in cui la norma prevede la possibilità per quest’ultimo, in qualità di appellante, di richiedere la sospensione della sentenza di primo grado favorevole all’ente impositore, e comunque la sospensione dell’atto.


L’Agenzia delle entrate, con la Circolare n. 38/E/2015, non considera rilevante la questione ma, anzi, attribuisce al contribuente la possibilità di richiedere, in contemporanea, la sospensiva di entrambi i provvedimenti, parlando di “facoltà riconosciuta al contribuente di chiedere la sospensione dell’atto oppure della sentenza” ed aggiungendo ancora che “la possibilità di chiedere in ogni caso la sospensione dell’esecuzione dell’atto” può essere accordata “in un’ottica di rafforzamento della tutela della parte”.


Alle medesime conclusioni è giunta altra parte della dottrina, in particolare un autore[22], che in ragione della difficile comprensione del significato da attribuire alla parola “comunque” ha ritenuto, con qualche perplessità, che tale avverbio possa “far pensare alla possibilità di richiedere in ogni caso anche la sospensione dell’atto con una duplicazione di istanze cautelari difficile da immaginare e gestire”.


Interpretazione piuttosto difficile da condividere, sia da un punto di vista strettamente processuale, per la difficoltà di dover gestire e valutare distintamente due richieste sospensive che, nonostante abbiano come obiettivo comune la paralisi della riscossione da parte dell’Ufficio impositore, si basano su due provvedimenti diversi, la cui condizione sospensiva è legata alla verifica di altrettanti presupposti diversi. Non può essere condivisibile neanche da un punto di vista della domanda stessa, in relazione alla sua causa petendi, in quanto un’errata domanda cautelare, o meglio, una domanda cautelare contenente la richiesta di sospensione di entrambi i provvedimenti, quando in realtà avrebbe dovuto essere formulata soltanto in relazione ad uno solo di essi, potrebbe avere delle conseguenze dirette sull’andamento della controversia, condannando al pagamento delle spese sul capo della domanda sul quale il giudice di appello dà torto.


C’è chi in dottrina ha sostenuto[23], in linea con la prassi dell’Agenzia delle Entrate riguardo alla richiesta di sospensione alternativa dei due provvedimenti, che in caso di ottenimento di sospensione cautelare della sentenza rimarrebbe, comunque, valida l’esecutività dell’atto prevista in pendenza del giudizio di primo grado (venendo inibita soltanto l’attivazione del meccanismo di riscossione frazionata di cui all’art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992), mentre, con la sospensione dell’atto, diverrebbe possibile ottenere la sospensione dell’esecuzione in relazione all’intero importo richiesto. Dando seguito a detta impostazione, è evidente che, per il contribuente, si presenterebbe sconveniente chiedere al giudice la sospensione della sentenza, comportando, detta scelta, un duplice onere dimostrativo ed un minor vantaggio.


C’è chi, invece[24], attribuisce all’avverbio “comunque” del comma 2, art. 52 d.lgs. 546 del 1992, il significato di cumulativo, arrivando a sostenere che il contribuente ed il suo difensore, non si devono limitare a chiedere la sospensione dell’esecuzione delle sentenze impugnate ai sensi degli articoli 283 e 373 del codice di procedura civile, ma devono anche chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto originario per evitare che l’Ufficio iscriva a ruolo o continui a richiedere il pagamento dell’originaria iscrizione a ruolo del terzo ai sensi dell’articolo 15, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973.


Autorevole dottrina[25], di chiara e rinomata impronta costitutivista, già dai primi approcci alla nuova formulazione normativa, sottolinea il problema di fondo che è stato alla base dell’errore nella redazione del d.lgs. n. 156 del 2015: “Alla base dell’introduzione in materia della sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata v’è stato un grosso equivoco concettuale circa l’oggetto di siffatta sospensione, che qui si assume debba riguardare la sentenza, e non l’atto impugnato”.


Tale errore, riscontrato anche in precedenza dall’Autore[26] nelle varie pronunce della Consulta e della Suprema corte che consentivano l’applicazione dell’istituto cautelare nei giudizi di impugnazione dettato nel rito civile, anche a quello tributario, consiste nell’assunto che le sentenze emesse dalle commissioni tributarie, oltre ad essere dotate di immediata efficacia, sarebbero dotate anche di efficacia esecutiva, costituendo veri e propri titoli esecutivi al pari delle sentenze di condanna del processo civile.


Il titolo esecutivo “pro fisco”, definito così dalla legge è e può essere solamente il provvedimento amministrativo, dotato di tale qualità, come il ruolo ed il c.d. atto impoesattivo; al contrario, mai si potrebbe immaginare, secondo tale impostazione, che l’ente impositore o l’agente della riscossione possano servirsi di una sentenza del giudice tributario per notificare un atto di precetto sul quale dare avvio all’esecuzione forzata tramite il pignoramento. Le uniche sentenze che possono considerarsi esecutive sono soltanto le sentenze di condanna della pars publica al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle che siano state pronunciate su ricorsi avverso gli atti relativi alle operazioni catastali alla stregua del novellato art. 69 del d.lgs. n. 546 del 1992.


È sulla base di tale argomentazione che l’Autore[27] trae le proprie conclusioni sull’esegesi del comma 2, dell’art. 52, sostenendo che, pur facendo la norma espresso richiamo all’“appellante”, e prescindendo questa generica espressione da ogni riferimento specifico su chi debba rientrare in tale richiamo, se contribuente o Ufficio, “non pare dubbio che, allo stato, le fattispecie ascrivibili de plano a questaprima parte dell’art. 52 siano propriamente quelle degli Uffici che abbiano proposto appello avverso sentenze di condanna”.


Tesi che ha riscontro positivo in buona parte della dottrina, tra la quale è interessante prendere a commento un Autore[28], il quale sostiene che il legislatore, con l’espressione “appellante”, si riferisca alla sola parte pubblica, individuata così in quanto potrà essere, a seconda della controversia, l’Ufficio, l’ente impositore, l’agente della riscossione. Di ciò si avrebbe conferma attraverso anche una lettura d’insieme dell’intero comma 2, quando, nel secondo periodo, al contrario, si riferisce specificatamente al contribuente, con la conseguenza che tale disposizione varrebbe così ad isolare questa posizione rispetto all’appellante individuato nel primo periodo della norma.


Se in primo grado è soccombente l’Ufficio, questi, con l’appello, potrà chiedere la sospensione dell’esecutività “della sentenza impugnata” per impedire l’effetto legale che da essa consegue ai sensi del comma 2 dell’art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992 o, se si tratta di lite da rimborso, per impedire l’operatività delle nuove norme che ne disciplinano l’immediata esecuzione.


Se, viceversa, è soccombente in primo grado il contribuente, questi, in qualità di appellante, ed avvalendosi del secondo periodo del comma 2 dell’art. 52, potrà chiedere al giudice del gravame la sospensione “dell’esecutività dell’atto”. Ciò in quanto in tal caso la pronuncia del giudice ha un contenuto meramente negativo, poichè accerta l’infondatezza dei profili di illegittimità dedotti in giudizio dal contribuente, senza modificare la situazione di fatto o di diritto. Ne discende che è corretto, secondo questa impostazione, che l’istanza di sospensione sia proposta direttamente nei confronti del provvedimento, e non della sentenza.


L’adozione di una tesi “mediana” tra le teorie che attribuiscono efficacia esecutiva dopo il giudicato di primo grado esclusivamente all’atto, ovvero alla sentenza, alla luce dell’orientamento seguito dalla giurisprudenza in merito al processo tributario, potrebbe essere la soluzione più corretta.


Ancora una volta, sembra necessario richiamare l’affermazione di C. Consolo “ogni tipo di processo, a seconda del suo oggetto, presenta, proprie esigenze di tutela cautelare[29], secondo la quale il giudice tributario è chiamato alla cognizione nel merito del rapporto d’imposta ed alla pronuncia di decisioni che si sostituiscono sia alla dichiarazione del contribuente, sia all’atto impositivo impugnato, solo nei casi in cui si riscontrino “vizi sostanziali” dell’atto e non “motivi formali[30]. Da ciò, la conseguenza che, nel caso di rigetto totale del ricorso del contribuente contro l’atto impositivo, l’inettitudine della sentenza meramente dichiarativa a produrre effetti esecutivi (o anche solo costitutivo-caducatori) dell’atto, farà sì che il solo provvedimento munito di efficacia esecutiva sia l’atto impositivo lasciato, per così dire “in vita” dalla sentenza. In questa ipotesi troverà applicazione il comma 2, secondo periodo, a mente del quale “comunque” il contribuente potrà chiedere al giudice di appello di sospendere l’esecutorietà dell’atto impositivo.


Nel caso di accoglimento parziale del ricorso del contribuente, o comunque a seguito di una rideterminazione del dovuto da parte del giudice di primo grado, il titolo esecutivo suscettibile di essere sospeso non potrà mai coincidere con l’atto impositivo originario (annullato, con efficacia caducatoria immediata, dalla sentenza di primo grado), ma coinciderà con la sentenza, idonea a sostituirsi all’atto, quale forma di sindacato giurisdizionale consecutivo ad opera dello speciale giudice tributario. Il contribuente, in questo caso, per inibire la riscossione frazionata, così come previsto dall’art. 68, dovrà appuntare la propria richiesta di sospensione sulla sentenza rideterminativa del rapporto tra contribuente e fisco.


I presupposti della sospensiva.


I presupposti, comuni a tutti i settori dell’ordinamento nei quali viene richiesto un provvedimento cautelare, sono riscontrabili fumus boni iuris e nel periculum in mora.


Il comma 2, del novello art. 52, pone un’ulteriore discussione, sempre legata al rapporto tra la richiesta di sospensione dell’atto e della sentenza, proprio in relazione ai presupposti della sospensiva. Il primo periodo del comma 2, che disciplina la tutela cautelare per la parte “appellante” attraverso la sospensione dell’esecutività della sentenza, ricalca la formulazione dell’art. 283 c.p.c., riflettendo così l’impostazione processualcivilistica che prevede la possibilità per la parte, nel caso ricorrano “gravi e fondati motivi”, di ottenere la sospensione, ad opera del giudice di appello, della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado. Il secondo periodo invece, lega la sospensione dell’atto alla formula del “danno grave e irreparabile” di cui all’art. 47 d.lgs. n. 546 del 1992.


Con riguardo al contribuente, al giudice del gravame sembrerebbe richiedersi di procedere ad un giudizio retto da standard valutativi diversificati, a seconda che l’oggetto dell’inibitoria finisca per vertere sull’esecutività della sentenza impugnata (“gravi e fondati motivi”), ovvero dell’atto impositivo (“danno grave e irreparabile”).Con riguardo alla parte pubblica invece, il periculum in mora potrebbe sostanziarsi in termini di grave pericolo di mancata restituzione di quanto versato/rimborsato, o di non immediato ripristino della situazione catastale imposta dalla sentenza impugnata e, quindi, di un oggettivo rischio di non recupero di tali somme in caso di esito vittorioso dell’appello da parte dell’Amministrazione finanziaria. Nella valutazione del fumus, come ormai appreso in precedenza, il giudizio consiste in un’analisi di tipo prognostico sulla probabilità di accoglimento della domanda principale. Un accertamento delibativo del diritto, fondato sulla ritenuta possibilità della sua esistenza, attraverso una sommaria valutazione degli elementi essenziali.


Tale valutazione si può ritenere già presente nella formula contratta “gravi e fondati motivi”, dove per l’appunto il profilo della fondatezza dei motivi sembrerebbe alludere proprio al fumus boni iuris, ma comunque (così come anche nella disciplina dell’art. 47) inequivocabilmente racchiusa nell’espressione “delibato il merito” che i successivi commi 4 e 5 richiedono esplicitamente. Non compare, invece, in riferimento al contribuente che richieda la sospensione dell’atto, un richiamo espresso al fumus, parlando il secondo periodo dell’art. 52, secondo comma, solamente di “danno grave e irreparabile”, ed il comma 4 disciplinante la sospensione interinale, che fa esclusivo riferimento alla sospensione dell’esecutività della sentenza, e non dell’atto.


Ad una prima lettura della norma quindi, potrebbe desumersi l’ipotesi che la sospensiva dell’atto impugnato sarebbe possibile anche in assenza di uno dei due presupposti per la sospensione (il fumus), e condizionata alla sussistenza del solo periculum. Il contribuente, in questa ricostruzione, potrebbe comunque ottenere la sospensione dell’atto, quando sussista solo il pericolo di danno grave e irreparabile e senza bisogno di dimostrare la verosimile fondatezza della impugnazione. C’è chi ha provato a dare una giustificazione a tale questione, sostenendo che, qualora il contribuente ottenga la sospensione della sentenza, la sospensiva avrebbe l’effetto non solo di paralizzare l’esecuzione dell’atto, cioè la riscossione frazionata, ma anche ogni iniziativa di cautela correlata ad esso, come ad esempio fermi ed ipoteche.


La sospensiva della sentenza è destinata ad avere, in questa ipotesi, effetti di tutela maggiore, per cui sarebbero richiesti presupposti maggiori.


La soluzione preferibile, vista la giurisprudenza granitica sul punto, è comunque quella che, nonostante la diversa dizione letterale frutto di un periodare tecnicamente scarso da parte del legislatore, sia la sospensione dell’atto, sia la sospensione della sentenza, siano ancorati tanto al requisito del periculum che a quello del fumus e, quindi, della verosimiglianza di fondatezza[31].


Per quanto concerne la valutazione del periculum, al fine di evitare che lo strumento della tutela cautelare possa essere utilizzato in maniera impropria, solamente per accelerare la decisione sul merito, lo stesso deve essere motivato e documentato, non potendo consistere in una mera allegazione o enunciazione di pregiudizio in re ipsa.


Spesso viene utilizzato il “criterio dei vasi comunicanti”, secondo cui è addirittura possibile una combinazione del quantum dei due presupposti, tale da consentire un bilanciamento o una compensazione tra gli stessi. Secondo tale tesi, a fronte di una situazione di pericolo particolarmente grave da far presagire un danno irreversibile, è consentito accordare la tutela cautelare anche laddove la prognosi di fondatezza del ricorso appaia meno forte di quanto ordinariamente richiesto a quei fini.


Analizziamo adesso nello specifico i due presupposti.


Il fumus boni jurisè la ragionevole ammissibilità o fondatezza apparente (verosimile o probabile) del ricorso, desumibile da una valutazione sommaria richiesta al giudice, circa l’apparenza del diritto, senza un approfondimento di merito, atteso che la sospensione non può essere concessa laddove il ricorso appaia manifestamente infondato o inammissibile. Sul punto, infatti, pare condivisibile l’autorevole indirizzo dottrinale[32] secondo cui il giudice, nella valutazione del fumus, oltre a considerare un giudizio attinente al “merito”, debba inevitabilmente considerare anche ungiudizio attenente al “rito”.


Il fumus è ricavabile dal contenuto del ricorso; si dovrà quindi dimostrare che il diritto, che si vuole cautelare, molto probabilmente esiste a seguito di una delibazione poco approfondita della controversia tributaria. Tale delibazione non può mai trasformarsi in una anticipazione della decisione definitiva, né può ritenersi vincolante per questa.


ll periculum in mora è il fondato timore che, nelle more del processo, il contribuente possa subire, per effetto del pagamento delle imposte, un ulteriore e diverso danno grave ed irreparabile; il c.d. “danno da ritardo”. La norma va interpretata non in senso oggettivo, visto che il solo danno patrimoniale, derivante in modo diretto dal pagamento delle imposte, non giustificherebbe mai di per sé la sospensione, in quanto suscettibile di reintegrazione per equivalente attraverso un’azione di rimborso e considerando che il debitore è, normalmente, solvibile. Il danno patrimoniale in via oggettiva non è mai irreparabile.


Il periculum in mora è invece, il danno indiretto che può derivare dalla lentezza fisiologica del processo ed il danno sarà grave quando indirettamente il pagamento di quella somma potrà ledere un diritto attinente alla sfera personale.Tale requisito si manifesta quando il giudice ritiene che la mancata sospensione dell’atto impugnato possa recare al ricorrente un danno tale da non apparire eliminabile, in tutto o in parte, in caso di successivo accoglimento del ricorso. La gravità dovrà essere valutata sia in senso quantitativo, quindi in relazione all’entità della pretesa erariale, sia in senso qualitativo, in relazione alle conseguenze che una mancata sospensione all’esecuzione può causare, come ad esempio, nei casi più gravi, la cessazione dell’attività e il conseguente licenziamento dei dipendenti.


Al riguardo si rimanda (senza pretese di esaustività) a:



  • Commissione tributaria provinciale di Milano, ord. 9 dicembre 1996, la quale ha concretato l’ipotesi di periculum nel caso in cui il pagamento delle imposte abbia a mettere a repentaglio i programmi di sviluppo dell’impresa;

  • Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, ord. 12 novembre 1996 che, argomentando in via analogica dalla disciplina della rateazione dei debiti di imposta, assume entro la soglia dell’irreparabilità del danno anche i casi in cui l’attività d’impresa potrebbe continuare a svolgersi soltanto al prezzo di cospicui tagli occupazionali;

  • Commissione tributaria provinciale di Modena, ord. 12 aprile 1999, la quale ha ravvisato l’esigenza della sospensione cautelare con la necessità di scongiurare il pericolo di improvvise e frettolose operazioni di smobilizzo, da parte del debitore di imposta, di importanti componenti, specie immobiliari, del proprio patrimonio, insuscettibili di esitazione a breve termine se non al prezzo di congrui deprezzamenti rispetto al loro effettivo valore di mercato.


Nel processo tributario è dubbio se la concessione della sospensiva necessiti, oltre ai requisiti finora esposti, anche di un terzo requisito: l’immediatezza del danno. Parte della dottrina[33] ritiene che il dettato normativo non contenga nessuna espressione che possa portare a sostenere la sussistenza ti tale ulteriore presupposto, al contrario dell’art. 700 del c.p.c. dove si parla di un pregiudizio “imminente e irreparabile”.


Ulteriore conferma a tale tesi sarebbe lo stesso art. 47, al comma 3, d.lgs. n. 546 del 1992 (ed anche il comma 4 dell’art. 52), che prevede l’ipotesi di eccezionale urgenza in caso di sospensione da parte del presidente inaudita altera parte; questo comporterebbe l’estraneità dell’imminenza del pregiudizio nel caso di istanza di sospensione “ordinaria”.


In effetti, il requisito dell’immediatezza del danno non è proprio della nozione di periculum e non è da considerare, quindi, come presupposto necessario perché possa essere concessa la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato.


Da non confondere è la differenza tra immediatezza ed attualità, spesso usati per esprimere il medesimo concetto.È necessario che il presupposto cautelare contenga in sé la valutazione della probabile lesione della situazione giuridica di vantaggio oggetto del processo, derivante da un’attuale e non solo ipotetica esposizione ad un pericolo. In altre parole l’attualità consiste in una relazione tra la mancata sospensione e un probabile danno, che non per forza deve essere immediato, ma grave e irreparabile. Se si dubita che l’immediatezza del danno possa costituire un requisito essenziale, non pare dubbio che il pregiudizio debba avere comunque il carattere della attualità e che tale condizione esista, non se l’esecutività è immediata, ma quando si possa pronosticare che esso produrrà i suoi effetti prima della decisione di merito, visto che la sospensiva è finalizzata a scongiurare il pericolo connesso alla durata della lite.


Sospensione innanzi alla Corte di cassazione: art. 62-bis d.lgs. n. 546 del 1992.


Anche l’art. 62-bis ripropone, al primo comma, con la stessa formulazione dell’art 52, il rapporto tra la sospensione della sentenza e la sospensione dell’atto, stabilendo al primo periodo che “la parte che ha proposto ricorso per cassazione può chiedere alla commissione che ha pronunciato la sentenza impugnata di sospenderne in tutto o in parte l'esecutività allo scopo di evitare un danno grave e irreparabile”; e nel secondo periodo “il contribuente può comunque chiedere la sospensione dell'esecuzione dell'atto se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile”.


Avendo già affrontato il tema, si rimanda a quanto innanzi esposto, ricordando che anche per questo articolo, nell’originario schema di Decreto delegato, era presente un ulteriore comma, che dava la possibilità all’Ufficio soccombente in grado di appello di riscuotere, in caso di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, le “somme esigibili nella pendenza di giudizio di primo grado”.


Ciò che, invece, è interessante analizzare sono i diversi presupposti di accesso alla tutela cautelare rispetto a quelli richiesti per la sospensione in appello.


L’art. 62-bis ricalca sotto molti profili l’art. 373 c.p.c., ed in particolare sembra anch’esso subordinare la sospensione della esecutività della sentenza di appello, alla mera sussistenza di un pericolo grave ed irreparabile, senza prevedere la delibazione del fumus boni iuris; entrambe le norme, infatti, collegano la possibilità di sospensione della sentenza di appello all’esigenza di evitare un “danno grave e irreparabile”, ovvero un “grave e irreparabile danno”.


Confrontando le ipotesi in cui è consentito sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado ad opera del giudice di appello, si nota la differenza di terminologia utilizzata, venendo richiesto che “sussistano gravi e fondati motivi”, dove per l’appunto, la sussistenza dei “fondati motivi” poteva collegarsi in qualche modo all’accertamento delibativo del diritto, comunque sia esplicitamente racchiuso nell’espressione “delibato il merito” dei successivi commi 4 e 5 art. 52.


Contrariamente, nell’art. 62-bis, non è riportato il riferimento alla “previa delibazione del merito” nè al comma 2, che dispone la fissazione della data di trattazione della istanza di sospensione, nè al comma 3 per la sospensione interinale.


Siffatta omissione costituisce ulteriore argomento per sostenere che non è qui richiesto il requisito del fumus boni iuris. In linea con tale orientamento si è espressa chiaramente l’Agenzia delle Entrate, che nella circolare n. 38/E del 2015, afferma che “la formulazione dell’art. 62-bis in esame è analoga a quella contenuta nell’art. 373 c.p.c. e attribuisce rilievo al solo periculum in mora, senza possibilità di valutare il fumus boni iuris.” Motivando tale presa di posizione sostenendo che “tale ultimo elemento è stato, infatti, già valutato, dallo stesso giudice che ha emesso la sentenza di cui si chiede la sospensione, impugnata innanzi alla Suprema Corte”.


Tale precisazione avrebbe portata innovativa e si pone in frontale contrasto con quanto statuito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 2845 del 2012, dove, nel ritenere applicabile anche al processo tributario l’art. 373 c.p.c., si era per l’appunto, precisato che “la specialità della materia tributaria e l’esigenza che sia garantito il regolare pagamento delle imposte impone una rigorosa valutazione dei requisiti del fumus boni iuris dell’istanza cautelare e del periculum in mora”.


Le osservazioni che si possono effettuare sul punto, riguardano, come sostenuto da un Autore[34], la sottolineata attenzione nel non confondere il “giudizio” sulla fondatezza (o, anche solo sull’ammissibilità) o meno del ricorso con la “valutazione meramente delibativa” sull’ammissibilità e fondatezza del ricorso che un tempo la sola Suprema Corte normalmente effettuava, in quanto essa stessa, in base all’originario testo dell’art. 373 c.p.c., era onerata di pronunciarsi in ordine all’istanza di tutela cautelare in pendenza del ricorso per cassazione.


La diversità rispetto all’art. 52, deriva dal fatto che la disciplina dell’intervento cautelare in pendenza del giudizio di Cassazione è costruita sull’assunto che ogni apprezzamento in ordine alla causa spetti ormai solo alla Suprema Corte, il che, tuttavia, non pare necessariamente escludere, che possa, ed anzi debba, essere fatto un apprezzamento al riguardo, senza che naturalmente ciò possa avere una qualsiasi influenza sulle decisioni della Corte.


Sembra, d’altronde, del tutto irragionevole pensare che, per quanto attiene al procedimento cautelare in primo o in secondo grado, il giudice della cautela debba tener conto del fumus boni iuris e che, viceversa, lo stesso, di fronte ad un ricorso per Cassazione, non debba, o addirittura neppure possa, fare attenzione al ricorso contenente le censure avverso la decisione impugnata in terzo grado, e così prescindere dal fatto che lo stesso sia magari palesemente inammissibile, ad es., perché non sottoscritto, o improcedibile, perché depositato oltre il termine, ovvero prima facie infondato, e quindi plausibilmente destinato ad essere rigettato, sia pur sempre in base ad una prognosi meramente delibativa, la quale, ovviamente, non deve, né può, avere alcuna rilevanza in ordine al giudizio sull’ammissibilità e sulla fondatezza del ricorso il quale resta riservato all’emananda pronuncia della Suprema Corte.


È chiaro che appare opportuno che al giudizio di sospensione non partecipino i magistrati che hanno emesso la sentenza contestata.


Assenza del reclamo avverso l’ordinanza cautelare


Il provvedimento con il quale le Commissioni tributarie si pronunciano sull’istanza di sospensione cautelare, è stabilito dal legislatore in una “ordinanza motivata non impugnabile”. La norma è senza dubbio chiarissima e non lascia spazio a dubbi interpretativi, differenziandosi così da quella che è la disciplina prevista nel processo civile ed in quello amministrativo, i quali hanno previsto, con il passare del tempo e l’evolversi della disciplina, una il reclamo e l’altra l’appello sui provvedimenti di accoglimento/rigetto dell’istanza.


Nel processo tributario, il legislatore del 1992 ha invece escluso l’introduzione di ogni tipo di rimedio impugnatorio contro l’ordinanza di accoglimento/rigetto della sospensione cautelare. Da quanto si legge dalla Relazione Ministeriale al d.lgs. 546 del 1992, si è voluto escludere i mezzi di riesame e di controllo dell’esercizio del potere cautelare ad opera del giudice superiore in modo da evitare la creazione di un provvedimento complesso ed i sui inconvenienti pratici. Motivi di economia processuale avrebbero dunque condotto il legislatore delegato a disporre la non impugnabilità dell’ordinanza.


Una scelta, quella del legislatore tributario, che appare criticabile sotto il profilo costituzionale, avuta considerazione del fatto che la legge delega non prevedeva l’inimpugnabilità, anzi, nel momento in cui la legge prevedeva l’obbligo della motivazione, alludeva evidentemente all’impugnabilità del provvedimento[35].


Inoltre, il doppio grado cautelare, e quindi la reclamabilità, si pone come caratteristica indefettibile di ogni procedimento giurisdizionale per tentare di ridurre i possibili errori. Argomenta, ancora, un Autore[36], sostenendo che in mancanza, nella legge delega, di una previsione espressa al fine di negare la possibilità del doppio rimedio cautelare, il legislatore delegato avrebbe dovuto uniformarsi al processo civile, il quale ha accolto come principio generale quello del reclamo contro i provvedimenti cautelari (art. 669-terdecies); il legislatore delegato non avrebbe dovuto discostarsi da suddetto principio.


Sul punto sovviene quanto statuito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 253 del 1994 relativa al processo civile, considerata di fondamentale importanza al fine di ricavarne principi applicabili anche al rito tributario.Per la Corte, lo strumento del reclamo, si concretizza in una “revisio prioris istantiae” che “consente, da parte di un giudice diverso da quello collegiale, il controllo sugli errores in procedendo e in iudicando eventualmente commessi dal giudice della cautela”, non essendo la previsione della riproposizione dell’istanza cautelare (prevista nel c.p.c. all’art. 669- septies) idonea a giustificare l’assenza del reclamo. Inoltre, la riproponibilità, “non esclude la necessità di riconoscere la funzione di riequilibrio dei poteri delle parti che opera il reclamo”.


In tale sentenza la Consulta, nell’ammettere il reclamo anche alle ordinanze di rigetto, afferma che “l’equivalenza nell’attribuzione dei mezzi processuali esperibili dalle parti… è in rapporto di necessaria strumentalità con le garanzie di azione e di difesa sancite dall’art. 24 della Costituzione”, precisando tuttavia, “salvo che la particolarità di tutela delle condizioni materiali di partenza, giustifichi una disciplina differenziata: cfr. ad es. sentenza n. 134 del 1994”.


La sentenza qui richiamata dalla Corte, afferma la legittimità dell’attribuzione di mezzi processuali a favore soltanto di una delle parti, quando ciò serva a consentire la realizzazione di “una situazione di sostanziale parità tra le stesse, cosi risolvendosi in un mezzo di ripristino di una eguaglianza che, se pur esistente sul piano formale, è suscettibile comunque di cadere”. Quindi, il principio della corrispondenza tra condizione paritaria delle parti in giudizio ed uguaglianza dei poteri processuali a queste accordate, potrebbe non operare quando una delle due parti non sia già in condizione di parità con l’altra.


In tal caso, infatti, sarebbe giustificata una “disciplina differenziata”, in ossequio all’art. 111, comma 2, Cost., per il quale “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità…”, che non può ridursi ad un solo equilibrio formale.


In campo tributario, la “disparità delle condizioni materiali di partenza” è legata al meccanismo stesso del prelievo fiscale, in quanto l’Amministrazione aggredisce il patrimonio del contribuente prima, al di fuori e durante il processo tributario. Nonostante la natura pubblica degli interessi di cui l’Amministrazione è portatrice, non sembra validamente “reggere” l’attribuzione ad essa di una posizione di privilegio (anche) in sede processuale, in base al principio dell’“interesse fiscale alla riscossione delle imposte”. Si può, quindi, ritenere che anche all’interno del processo tributario possa trovare spazio la regola della parità delle parti in giudizio.


Pertanto, questa “non equa” posizione, in campo tributario, tra le parti sembra che possa trovare un “riequilibrio” in sede processuale; andrebbe cioè riconosciuto, al solo contribuente, il rimedio del reclamo contro l’ordinanza cautelare che rigetti l’istanza di sospensiva. Tale previsione potrebbe servire a “riequilibrare” la posizione delle parti in giudizio non dal punto di vista dello strumentario cautelare, ma sotto il profilo della disparità sostanziale tra contribuente ed Amministrazione finanziaria.


La recente riforma del processo tributario avvenuta con il d.lgs. n. 156 del 2015, non solo non ha considerato tale questione, ma ha aggiunto una problematica ulteriore, collegata inevitabilmente alla non impugnabilità dell’ordinanza di sospensione. Con il nuovo comma 2-quater dell’art. 15 d.lgs. n. 546 del 1992, viene previsto che “con l’ordinanza che decide sulle istanze cautelari la commissione provvede sulle spese della relativa fase. La pronuncia delle spese conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito”.


Tale previsione però, mal si adatta alla disciplina della tutela cautelare del processo tributario in quanto, prevedere un’autonoma pronuncia sulle spese, contro la quale non è previsto un gravame (in tal modo violando l’art. 111 Cost), e riconoscendogli una efficacia oltre il grado, salvo diversa statuizione espressa nella sentenza di merito, si pone “in netta contraddizione con le caratteristiche d’incidentalità e d’inautonomia, che connotano le preservate disposizioni del rimedio cautelare secondo l’art. 47 del d.lgs. n. 546/1992[37].


Alla luce delle considerazioni effettuate sembra, in conclusione, che la previsione di non impugnabilità dell’ordinanza cautelare sia costituzionalmente illegittima, per contrasto con il principio della parità delle parti di cui all’art. 111, comma 2, Cost.


Elisa Manoni




[1] C. Glendi, “Nuovi orizzonti per la tutela cautelare del contribuente durante il giudizio contro la decisione del giudice tributario di secondo grado in Cassazione (e non solo)”, in Corr. Giur., 2013, 5, pag. 677 ss..


[2] A. Colli Vignarelli, “Considerazioni in tema di tutela cautelare nel processo tributario”, in Rass. trib., 1996, pag. 565.


[3] Corte cost., 30 luglio 2008, n. 316.


[4] S.M. Messina, “La tutela cautelare oltre il primo grado di giudizio”, in Corr. trib., 2007, 38, pag. 3078.


[5] Corte cost., sent. n. 336 del 1998.


[6] Corte cost., sent. n. 165 del 2000.


[7] A. Fantozzi, “Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria”, in Riv. dir. trib., 2004, pag. 156 ss..


[8] Sul punto, A. Colli Vignarelli, “La tutela cautelare tributaria nei giudizi di impugnazione: problematiche e prospettive attuali”, in Riv. dir. trib., 2011, pag. 431 ss..


[9] Circolare n. 73/E del 2001.


[10] Cassazione, sentenza n. 7815 del 31 marzo 2010.


[11] Corte cost., sentenza n. 165 del 2000.


[12] P. Russo, voce Appello (dir. trib.), in Enc. Giur. Treccani, Vol. II, Roma, 1998, pag. 9.


[13] A. Colli Vignarelli, cit., loc. cit., pag. 575 ss..


[14] Corte cost., sent. n. 119 del 2007.


[15] Interpretazione prospettata da C. Glendi, cit., loc. cit., pag. 670.


[16] F. Tesauro, “La tutela cautelare nel procedimento di appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale”, in Boll trib., n. 23, 1999, pag. 1734 ss..


[17] P. Russo, voce Processo tributario, in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1978, pag. 770 ss..


[18] C. Glendi, “Neoscrescenze normative processualtributaristiche: l’inibitoria in appello”, in Corr. trib., n. 29 del 2016, pag. 2241, nota n. 28.


[19] F. Randazzo, “La riforma della sospensione cautelare nel processo tributario”, in Corr. trib., n. 5 del 2016, pag. 375 ss..


[20] C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Tomo I – Le tutele: di merito, sommarie ed esecutive, Padova, 2008.


[21] C. Glendi, “Fermenti legislativi processualtributaristici: lo schema di decreto delegato sul contenzioso”, in Corr. trib., n. 32 del 2015, pag. 2470 ss..


[22] M. Conigliaro, “Tutela cautelare estesa a tutti i gradi del giudizio tributario”, in Il Fisco, n. 45 del 2015.


[23] M. Leo, “La riforma del contenzioso tributario: cose fatte e cose da fare”, in Il Fisco, n. 42 del 2015.


[24] M. Villani, “La tutela cautelare nel nuovo processo tributario”, in Filodiritto.


[25] C. Glendi, “Neoscrescenze normative processualtributaristiche: l’inibitoria in appello”, loc. cit., 2241 ss..


[26] Si rinvia alla precedente nota.


[27] Si rinvia alla nota n. 25.


[28] F. Randazzo, cit., loc. cit., pag.378 ss..


[29] Cit., loc. cit., pag. 289.


[30] Cass. sent. 9 giugno 2010, n. 13868; Id., sent. n. 8765 del 10 aprile 2009.


[31] In tal senso anche Circolare Agenzia delle Entrate, n. 38/E del 2015.


[32] C. Glendi, “La tutela cautelare nel processo tributario riformato (articolo 47 del d.lgs. n. 546 del 1992 e norme complementari)”, in Dir. prat. trib., 1999, pag. 27 ss..


[33] L. Tosi, “L’azione cautelare dopo la riforma del processo tributario riformato”, in Boll. Trib., 1993,


[34] C. Glendi, “Primi approcci giurisprudenziali alla "nuova" inibitoria in pendenza di ricorso per cassazione nel processo tributario”, in GT- Riv. giur. trib., n. 10 del 2016, pag. 813 ss..


[35] P. Accordino, “Considerazioni in tema di non impugnabilità dell’ordinanza collegiale di sospensione cautelare nel processo tributario: una scelta viziata da asistematicità”, in Riv. dir. trib., n. 1 del 2008, pag. 44 ss..


[36] A. Colli Vignarelli, cit., loc. cit., pag. 577 ss..


[37] C. Glendi, “Fermenti legislativi processualtributaristici: lo schema di Decreto Delegato sul contenzioso”, loc. cit., pag. 2470 ss..

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